[Berlinale 2018] Eva, la recensione
Con un grande inizio e poi una ancor più grande fatica a tenere unite le sue fila, Eva vorrebbe decostruire il thriller ma con così poche idee è davvero impossibile
Eva ha in particolare un attacco formidabile, tutto giocato sul montaggio di Julia Gregory e la riduzione delle singole scene all’essenza. C’è più in quel che viene saltato con il montaggio che in quel che vediamo, eppure quel poco che vediamo ci fa capire benissimo cosa sia successo, in pochi tratti abbiamo quadri ampi e la sensazione è sempre che le scene siano ridotte all’essenza da qualcuno che ha capito perfettamente quale sia l’essenza, dove togliere e come ridurre senza perdere in significato (anzi!).
Tutto cospira verso il buon thriller. Entreranno in gioca un’altra prostituta di alto livello (Isabelle Huppert), il problema di realizzare una seconda opera da parte di una persona che ha fatto i soldi ma non sa scrivere, il rapporto morboso con la suddetta prostituta, la mancanza di idee e poi il niente. Ben presto Eva perde tutta la spinta, non sa che fare, annaspa. La sceneggiatura scientificamente sceglie di trascurare tutti gli spunti e ogni angolatura interessante. Non vuole chiudere molte linee di trama, altre proprio non le porta avanti e nel finale fa esplodere eventi clamorosi senza coerenza con il resto della storia.
Non è possibile davvero cedere ad una così blanda e semplicistica revisione delle regole della scrittura o del genere. Decostruire un thriller o una storia di suspense è sforzo ben maggiore di questo, in cui Jacquot si limita a trattenere delle informazioni e non portare avanti delle svolte, cincischiando fino alla fine con un’irrisolutezza che, qualora fosse realmente il punto della sua decostruzione, costituisce uno degli esercizi più futili degli ultimi anni.