[Berlinale 2018] Don't Worry He Won't Get Far On Foot, la recensione

Molto concentrato sulla disintossicazione dall'alcol, Don't Worry He Won't Get Far On Foot perde di vista il resto e diventa un film di soli attori

Critico e giornalista cinematografico


Condividi
La storia vera dell’illustratore John Callahan, costretto su una sedie a rotelle da un incidente d’auto e massacrato a lungo dalla dipendenza dall’alcol, è una storia in realtà di figure marginali. Gus Van Sant la usa come una porta su un mondo di persone ai margini da tutto, difettate, piene di questioni irrisolte, ben più che imperfette e praticamente dei sopravvissuti a se stessi in tanti sensi diversi. Per questo alla fine è anche un film di attori capeggiati da un manieristico Joaquin Phoenix, un film in cui a contare più di tutto sono le prestazioni, come questi personaggi pieni di problemi e che sembrano tutti dei reduci sono animati, trovando quali compromessi e attraverso quali mascherate, quanto manierismo e quale profondità. Tutte componenti che contano nettamente più di quel che dicono.

Perché la trama, nonostante Gus Van Sant sia ben deciso a mescolare tempi differenti per dargli un po’ di vitalità, si limita a seguire Callahan negli eventi che l’hanno portato sulla sedia a rotelle e poi nel lento processo di evasione dalla dipendenza attraverso i gruppi di autoaiuto, con grande attenzione ai “passi” da fare per disintossicarsi, come consigliato da quello che per lui in breve diventa un guru, cioè Donnie (un irriconoscibile Jonah Hill). Proprio nei gruppi gestiti e organizzati da Donnie, il protagonista racconta se stesso agli altri e a noi. Insomma è abbastanza meccanico Don’t Worry He Won’t Get Far On Foot, molto grossolano nel fare esporre al protagonista i suoi problemi e nel farglieli risolvere alle volte con un eccesso di senso del grottesco come nella comparsa di un fantasma della madre che gli parla.

In realtà sembra di capire che la vita e il successo lavorativo di Callahan, brillante umorista a fumetti, dalle striscie ciniche e bastarde, cattive e politicamente scorrette (per questo amato tanto quanto odiato), offriva più di uno spunto che a Van Sant però non interessa. Non è il suo lavoro ad interessargli, quello semmai è un ornamento che definisce la personalità, un mezzo per rappresentarne la rinascita, ma la storia di una rinascita molto lenta. Forse allora non a caso quel che accade è che anche quando l’intreccio della trama è risolto, il film non finisce, e non lo fa fino a quando non sono stati compiuti tutti i passi della disintossicazione, in un trionfo crescente di buonismo, sorrisi, pacche sulle spalle, piccoli e grandi trionfi umani e professionali o confessioni accorate, prendendo gradualmente quel fascino maledetto e rovinato che, se non altro, all’inizio gli aveva dato un fascino.

Continua a leggere su BadTaste