[Berlinale 2018] 7 Days In Entebbe, la recensione

Secco quando deve raccontare, ma troppo schematico quando vuole trarre una morale e prendere posizione 7 Days in Entebbe si penalizza con le sue mani

Critico e giornalista cinematografico


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Il problema con 7 Days in Entebbe è che non appena alza testa la sbatte.

Fino a che il film di Josè Padilha rimane concentrato e a testa bassa sugli eventi che vuole raccontare, ovvero il dirottamento aereo e il sequestro dei passeggeri di un volo AirFrance da parte di due tedeschi e alcuni combattenti del Fronte popolare di liberazione palestinese nel 1976 con lo scopo di imbastire una trattativa per la liberazione di alcuni terroristi tenuti prigionieri in Israele, il film procede spedito su binari sicuri. Padilha è molto bravo a scandire le informazioni e dare forma ai personaggi poco nelle pause d’azione e molto mentre sono impegnati a fare qualcosa, mentre mandano avanti la trama del film in un modo o nell’altro.

Ottimo regista di genere, abile con la messa in scena complicata che prevede diversi attori, coreografie con un’azione moderata ma serrata e dal gran montaggio, Padilha non si perde nella ricostruzione d’epoca, rifiuta in toto l’effetto nostalgia e mira dritto al risultato. Tuttavia 7 Days in Entebbe è anche un film con una chiara idea dietro, che ha una parte da sostenere e una posizione da mantenere (non particolarmente rischiosa ma ce l’ha) e infine tutta una sua metaforona che lentamente lo fa affondare. Ogni qualvolta il film cerca il colpo d’autore regolarmente sbanda e mostra di essere più ingenuo di quanto non sembri dall’ottima narrazione degli eventi.

Sta con Yitzhak Rabin e contro Shimon Peres, cioè con gli israeliani in cerca di pace, dipinge i combattenti per la libertà palestinese con un misto di condanna e comprensione delle avversità, fa fare ai suoi militanti di estrema sinistra tedeschi un ampio processo di elaborazione di quel che stanno facendo, perché e come, e ovviamente sente le ragioni di tutti. Tuttavia la voglia di semplificare il conflitto e schierarsi contro chi fomenta la guerra da ogni parte è in lui così forte da portarlo verso il cinema più schematico. La bontà di tutti, la cattiveria degli assetati di guerra, la stupidità del dittatore dell’Uganda Idi Amin e gli occhi pieni di speranza e paura dei militari. Addirittura verso la fine regala un insensato assolo a Rosamund Pike, così fuori luogo che pare frutto di una penitenza per aver perso una scommessa.

Sembra incredibile che proprio il regista di Tropa de Elite sia caduto nelle trappole più banali del cinema di rievocazione storica all’europea. Eppure 7 Days in Entebbe, sfocia ben presto in un apologo pacifista troppo semplicistico per i fatti che rappresenta (il conflitto israelo-palestinese!), così ansioso di mettere in scena con chiarezza la propria posizione da far pronunciare ai politici frasi slogan. Senza contare poi l’inserimento di una grande metafora teatrale, portata avanti da un personaggio marginale (uno dei militari che andranno a cercare di liberare gli ostaggi) e dalla sua fidanzata. Mentre lui parte, lei balla e vediamo tutto in un montaggio incrociato e sincopato. Davvero no.

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