[Berlinale 2017] Viceroy's House, la recensione
La storia dell'indipendenza e della divisione dell'India Viceroy's House la racconta dalle sale di potere attraverso lo sguardo di inservienti e camerieri
Viceroy’s House racconta il complicato momento di passaggio all’indipendenza dell’India dal Regno Unito, la maniera in cui invece di un paese unito si sia optato per uno diviso a seconda delle religioni e lo fa con un gusto per i grandi sentimenti accoppiato a quello del resoconto storico classico, quello in cui i potenti sono ritratti nel dilemma di essere parte della grande storia.
A dirigere c’è Gurinder Chadha (di Sognando Beckham) che non nasconde i due concetti chiave del film: “La storia la fanno i vincitori” (lo recita un cartello che compare all’inizio) e che la sua famiglia è stata coinvolta nei massacri e negli esodi sanguinosi che quelle decisioni politiche causarono (lo si vede in chiusura). Tanto basta a giustificare un punto di vista estremamente parziale, che racconta la grande storia, le discussioni tra il vicerè e gli esponenti politici locali, che rappresenta l’intervento di Gandhi e l’ingerenza di Churchill, al pari della piccola storia di alcuni servitori del palazzo vicereale, persone semplici con problemi da romanzo rosa, le cui vite verranno tranciate dalla violenza della Storia.
E dire che la maniera molto soffusa e sdolcinata in cui la grande Storia investe le piccole vite di personaggi fatti per commuovere (la ragazza dal cuore d'oro, promessa sposa a qualcuno che non ama che sceglie di non stare con il suo vero amore per accudire un padre cieco!), ha il passo migliore, quello del grande fiume popolare e per l'appunto sognante, in cui anche nei momenti più tragici e ferali esiste un sole da qualche parte e il pianto più disperato può essere sciolto da un’inevitabile consolazione. Nel momento migliore Viceroy's House riesce anche a riscrivere il più tragico e commovente passaggio di Il Dottor Zivago all'insegna del trionfo dei sentimenti (almeno quelli).