[Berlinale 2017] The Other Side Of Hope, la recensione

Migranti e ristoratori, tutti uomini che si danno una mano come possono, The Other Side Of Hope è impeccabile, ma non sorprende

Critico e giornalista cinematografico


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Un paio di cazzotti, uno dato e uno preso, sono il colloquio di lavoro con cui Khalid a metà film comincia a lavorare per The Golden Pint ristorante scalcinato di proprietà dell'altro protagonista del film, l'ex rappresentante di camicie che molla la moglie con bigodini e sigaretta per un futuro diverso e così incontra una famiglia nuova nei camerieri e cuochi suoi dipendenti. Solo in questo cineasta finlandese dalle poche parole ma taglienti un paio di pugni sono un buon modo per presentarsi e dimostrarsi persone serie. Perché non è solo la presenza dei bluesman e dei rocker di 60 anni di età (in media), né il profluvio di fumo ovunque, specie dove non si può, a rendere Kaurismaki un "resistente" ma proprio quella radice schietta e onesta cui attinge e che alimenta ogni svolta, decisione o presa di posizione. Un romantico in un senso che ad oggi è praticamente perduto.

La radice di quest’atteggiamento è la stessa dei western, dei polizieschi con un'anima e poche battute o degli action movie tutti sguardi e pochi misurati colpi di pistola. Certo Kaurismaki fa tutto ciò ben lontano dalla violenza (per quanto poi le storie che Khalid racconta e vive, le sue peregrinazioni e l'odio che riesce a scatenare, sempre violenza sono), preferendo il taglio ironico di sguardi e posizioni, di stacchi di montaggio e volti rugati che vincono a poker senza emettere un fiato ma sollevando un sopracciglio che fa morire dal ridere la sala, eppure sempre di quel modo di guardare il mondo, giudicarlo e viverlo stiamo parlando. E purtroppo sempre di quello parla anche lui. Perché The Other Side of Hope, pur nel suo ineccepibile rigore e nella sua ammirabile capacità di sintesi, non muove un passo dalla solita idea degli ultimi film di Kaurismaki.

Il problema dei migranti è raccontato con viva partecipazione e questo non è frequente (specie nei film che “vogliono” essere vivi), non è cioè frequente trovare una simile capacità di rendere le difficoltà, farlo guardando il percorso di un uomo che ha perso tutto, alla ricerca della sorella come uno sbandato delle badlands, il reduce di un grande conflitto con gli indiani ancora in cerca dell’ultimo scampolo di famiglia che aveva, forse viva ma in mezzo alla sterminata landa di nessuno. Purtroppo però alla fine tutto si “riduce” (si fa per dire) alla magnifica esposizione del pessimismo umano di questo cineasta finlandese, con pochissima voglia di smuovere acque che da troppo tempo sono limpide come un meraviglioso lago d’inverno ma anche, ad un visione ravvicinata, ferme e stagnanti.

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