[Berlinale 2017] The Lost City Of Z, la recensione

Con alcuni dei momenti migliori del cinema di James Gray, The Lost City of Z non riesce a farsi film compiuto ed è più un'unione di momenti

Critico e giornalista cinematografico


Condividi

Stranamente The Lost City of Z sembra invecchiare più procede. Con l’incedere delle scene e il procedere della storia lo stile del film sembra andare indietro nel tempo, fino ad un’ultima parte modellata sul linguaggio del cinema degli anni ‘70 (al netto degli effetti speciali moderni). Si tratta di un movimento molto strano, come poco convenzionale è tutto quest’ultimo film di James Gray, fondato su una trama che sembra d’avventura e invece si rivela altro, forse l’ultima delle cose ci si sarebbe potuti aspettare da lui. Un film in costume sull’esplorazione dell’Amazzonia, sul desiderio di vedere, di trovare, di superare quell’angolo o quell’ansa che fornisce l’accesso a quel che nessuno ha mai visto.

Inizia tutto (e bene!) con una caccia al cervo in Inghilterra, un attacco così subitaneo e immediato che fa ben sperare. Il capitano protagonista si stacca dal disastroso gruppo (pieno di gente che cade e cavalli che si scontrano per errore) e procede da sé per arrivare primo sulla bestia e farla fuori. C’è già un’aria autunnale da tramonto fatalista che sembra venire fuori da un film di Terrence Davies. Aver ucciso la grande preda non basterà, per le malefatte dei suoi avi il nome del capitano Fawcett non è gradito e accettato in società. Finirà così lo stesso di stanza all’istituto di ricerca geografica per il quale sarà mandato in Amazzonia a fare il cartografo, in anni in cui una cosa simile poteva voler dire morte. Nella giungla colombiana troverà artefatti che suggeriscono la presenza di una città e quindi una civiltà evoluta mai scoperta nel cuore della foresta. Non riuscirà a trovarla, dovrà tornarci senza successo più volte e lottare con i pregiudizi in patria.

Tutto questo che potrebbe essere una variazione sui temi del futile scontro impari tra uomo e natura affrontati da Herzog (Aguirre Il Furore di Dio e Fitzcarraldo, ricordato da un momento di opera al centro della giungla), assume in The Lost City of Z quasi una dimensione spirituale, una così elevata e rarefatta che nonostante il film non possa dirsi pienamente riuscito (troppo esasperante, dilatato e alla fine poco concludente) avvinghia in una misteriosa morsa, stretta quasi quanto quella che costringe ogni volta l’esploratore ad abbandonare con dolore e sofferenza la propria famiglia e tornare a rischiare la morte in Amazzonia. C’è un fascino grandissimo nella qualità contemplativa così particolare e spirituale di questo film (rivelata alle volte anche solo da una piccola esitazione di fronte ad una freccia che colpisce un taccuino) che tiene attaccati ad ogni immagine, anche contro una sceneggiatura più che convenzionale che vuole il capitano di Charlie Hunnam unito in un legame silenzioso e virile all'incolore scienziato di Robert Pattinson e invece contrapposto ai pusillanimi come il Murray di Angus Macfeyden.

Nonostante il fatalismo magico espresso in un finale ambiguo e davvero riuscito (similmente a quello così memorabile e rivelatore di Silence), in The Lost City Of Z il problema è che non brucia quasi niente. Il conflitto di un uomo con se stesso pare prescindere dalla ricerca e da quei momenti (quelli davvero potenti) in cui è nell’aria il fatto che dietro la prossima ansa ci sia l’ignoto, il tesoro, la scoperta, la soddisfazione di una vita intera da redimere. Quando la praticità del sopravvivere si colora di toni così astratti da avvicinarsi ad uno spiritualismo tacito e accettato, così interiore da non necessitare di alcune esibizione, lì James Gray trova l’equilibrio che per altri versi reggeva I Padroni della Notte.

Ma per l’appunto sono momenti, bellissimi, che non si traducono mai in un film veramente compiuto.

Continua a leggere su BadTaste