[Berlinale 2017] The Lost City Of Z, la recensione
Con alcuni dei momenti migliori del cinema di James Gray, The Lost City of Z non riesce a farsi film compiuto ed è più un'unione di momenti
Inizia tutto (e bene!) con una caccia al cervo in Inghilterra, un attacco così subitaneo e immediato che fa ben sperare. Il capitano protagonista si stacca dal disastroso gruppo (pieno di gente che cade e cavalli che si scontrano per errore) e procede da sé per arrivare primo sulla bestia e farla fuori. C’è già un’aria autunnale da tramonto fatalista che sembra venire fuori da un film di Terrence Davies. Aver ucciso la grande preda non basterà, per le malefatte dei suoi avi il nome del capitano Fawcett non è gradito e accettato in società. Finirà così lo stesso di stanza all’istituto di ricerca geografica per il quale sarà mandato in Amazzonia a fare il cartografo, in anni in cui una cosa simile poteva voler dire morte. Nella giungla colombiana troverà artefatti che suggeriscono la presenza di una città e quindi una civiltà evoluta mai scoperta nel cuore della foresta. Non riuscirà a trovarla, dovrà tornarci senza successo più volte e lottare con i pregiudizi in patria.
Nonostante il fatalismo magico espresso in un finale ambiguo e davvero riuscito (similmente a quello così memorabile e rivelatore di Silence), in The Lost City Of Z il problema è che non brucia quasi niente. Il conflitto di un uomo con se stesso pare prescindere dalla ricerca e da quei momenti (quelli davvero potenti) in cui è nell’aria il fatto che dietro la prossima ansa ci sia l’ignoto, il tesoro, la scoperta, la soddisfazione di una vita intera da redimere. Quando la praticità del sopravvivere si colora di toni così astratti da avvicinarsi ad uno spiritualismo tacito e accettato, così interiore da non necessitare di alcune esibizione, lì James Gray trova l’equilibrio che per altri versi reggeva I Padroni della Notte.