[Berlinale 2017] The Final Portrait, la recensione

Ritratto di un artista, The Final Portrait diventa involontariamente un modo di parlare di arte come la intende Stanley Tucci

Critico e giornalista cinematografico


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La cosa più forte di The Final Portrait, specie per gli amanti del lavoro da attore di Stanley Tucci (qui regista), è quanto ci sia nella messa in scena del suo gigantesco mestiere gigantesco di quest’attore. Attore da un pugno di scene a film, ma sempre memorabile, Tucci ha affinato negli anni una capacità magistrale nel dare vita nei pochi minuti sullo schermo di cui dispone per ogni pellicola a personaggi complessi e affascinanti, è in grado di animare scene da solo senza bisogno di aver avuto altri momenti per creare un background al personaggi, è capace con pochissimi gesti di concentrare e sintetizzare ciò che altri possono fare lungo tutto un film. The Final Portrait è un film così, di piccoli gesti, attimi minuscoli e un’infinità di dettagli che parlano molto più del quadro generale.

La storia del ritratto che Alberto Giacomelli ha fatto al giornalista James Lord (raccontata in un libro dello stesso Lord, qui interpretato da Armie Hammer, di nuovo genitoluomo di classe dopo The Social Network, Free Fire e Operazione U.N.C.L.E.) è un modo per esplorare la creatività e la personalità di questo sculture e pittore svizzero. Tucci usa l’odissea di quella realizzazione (odissea molto ordinaria per Giacomelli) per mostrare concetti abusati come quello di musa, di artista sregolato, di tristezza finalizzata alla creazione e perfezionismo, eppure ciò che è più memorabile di questo film sono una lunga serie di momenti ordinari e significativi. La creazione come mestiere noioso, estenuante e quasi da impiegato.

Ovviamente The Final Portrait è una galleria di interpretazioni molto curate (con uno stropicciatissimo Geoffrey Rush, finalmente di nuovo in gran forma, e Tony Shalhoub in un ruolo che in un’altra produzione sarebbe andato a Tucci stesso), ma sia dal punto di vista recitativo che da quello registico è come se in questa specie di set in miniatura, in questa bottega dove paiono non esistere i colori (gli unici li portano le donne, ma sono fugaci e stonate apparizioni), gli attori si muovono come su un palco teatrale e tutto si ripete uguale giorno dopo giorno, avvengano cose che il film coglie e che emanano un mondo intero.

Per quanto poi The Final Portrait non brilli di gran luce e abbia anche momenti molto dimenticabili (come il “simpatico” montaggio musicale), è difficile staccarsi da questo racconto classico di un personaggio grandioso e irruento, che impreca davanti alla tavola e potrebbe non smettere mai di ritoccare le sue opere, innamorato delle donne e impervio al denaro, proprio perché individua nei dettagli il demonio del cinema trasferendo per l’appunto ad un film intero quel lavoro sottile che Tucci fa sui suoi personaggi.

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