[Berlinale 2017] The Final Portrait, la recensione
Ritratto di un artista, The Final Portrait diventa involontariamente un modo di parlare di arte come la intende Stanley Tucci
La storia del ritratto che Alberto Giacomelli ha fatto al giornalista James Lord (raccontata in un libro dello stesso Lord, qui interpretato da Armie Hammer, di nuovo genitoluomo di classe dopo The Social Network, Free Fire e Operazione U.N.C.L.E.) è un modo per esplorare la creatività e la personalità di questo sculture e pittore svizzero. Tucci usa l’odissea di quella realizzazione (odissea molto ordinaria per Giacomelli) per mostrare concetti abusati come quello di musa, di artista sregolato, di tristezza finalizzata alla creazione e perfezionismo, eppure ciò che è più memorabile di questo film sono una lunga serie di momenti ordinari e significativi. La creazione come mestiere noioso, estenuante e quasi da impiegato.
Per quanto poi The Final Portrait non brilli di gran luce e abbia anche momenti molto dimenticabili (come il “simpatico” montaggio musicale), è difficile staccarsi da questo racconto classico di un personaggio grandioso e irruento, che impreca davanti alla tavola e potrebbe non smettere mai di ritoccare le sue opere, innamorato delle donne e impervio al denaro, proprio perché individua nei dettagli il demonio del cinema trasferendo per l’appunto ad un film intero quel lavoro sottile che Tucci fa sui suoi personaggi.