[Berlinale 2017] Mr. Long, la recensione
Un'altra vita è possibile anche per il sicario di Mr. Long, ma come sempre nel cinema la "storia di violenza" torna a battere cassa
Un sicario giapponese bloccato a Taiwan da una missione finita male viene accolto da una comunità che non sa niente di lui. Affascinata dalla sua aria cool e dal parlare poco (del resto non conosce la lingua) ma soprattutto stupita dalle doti culinarie, gli crea un piccolo banco ambulante e gli fornisce gli ingredienti per iniziare oltre ad una posizione per lavorare. L’obiettivo segreto è guadagnare quel che serve per un posto sulla prima nave per il Giappone, ma di mezzo ci si mettono una drogata e suo figlio le cui vite sono stranamente legate a quelle del sicario.
Se personaggi, setting e intreccio possono sembrare usuali, non lo sono per niente le sensazioni ad essi legati e quindi i valori che SABU appiccica alle scelte degli individui.
La prima vera conquista di Mr. Long è infatti quella di trasformare il duro lavoro paradiso da che il resto del cinema lo considera un purgatorio. Long è premiato con questo lavoro onesto, sembra che gli sia piovuta addosso sua malgrado una vita che non avrebbe mai sognato ma che accetta subito. Cucinare e vivere con semplice onestà non sono il mezzo che lo porta altrove ma il traguardo che arriva già nella prima parte del film. Il difficile sarà tenerlo stretto.
Ovviamente il crimine e la violenza torneranno a battere cassa e la sua “storia di violenza” non potrà dirsi mai veramente terminata, ma paradossalmente SABU è più interessato ai cambi che agli esiti. Non solo il cambio di vita ma il cambio di paesaggio, quel Giappone silenzioso contrapposto al fragore di Taiwan o quella specie di baraccopoli in stile Dodes’ ka-den, in cui trovare non tanto una specie di pietà spirituale, ma invece una comica e molto terrena seconda famiglia con cui poter essere diversi.