[Berlinale 2017] Logan - The Wolverine, la recensione
Mangold e Hugh Jackman con una perseveranza rara ce l'hanno fatta, Logan è il film che il personaggio meritava per il suo addio
La storia cui assisteremo, presa nella sua essenza, sarà più o meno la stessa cui i cinefumetti ci hanno abituato (specie quelli con mutanti), fatta di una minaccia esterna, l’esigenza di combatterla, di salvare qualcuno, scappare, riunirsi e lottare per la sopravvivenza. A rendere tutto diverso, complesso, migliore è la riduzione delle proporzioni (non "salvare il mondo" ma una persona sola tra molte), l’ambientazione e l’idea ampiamente anticipata di un cast ridotto all’osso, invecchiato, distrutto e ridotto ai minimi termini. Il film ha una violenza forte e da Rated R (l’equivalente americano del divieto ai minori di 17 anni), ma la vera devastazione è quella operata addosso ai personaggi, massacrati di umiliazioni e antiepica.
La vera devastazione è quella operata addosso ai personaggi, massacrati di umiliazioni e antiepicaLogan è sempre stato il più animalesco del suo branco, sulla carta come al cinema, ma Mangold qui lavora tantissimo di sound design e di urla, grugniti e ruggiti. Con il procedere del film si impara a distinguerli, si allena l’orecchio alle urla di furia (bellissime quelle della bambina), di rabbia, di morte e di ritrovato vigore. Ancora niente di nuovo, i supereroi hanno sempre il dovere di sembrare in difficoltà per trovare la vera forza dentro di sé, ma renderlo in questa maniera è una boccata di cinema di cui beneficia tutto il film (che di espedienti simili è pieno).
In una storia che è superfluo star qui a riassumere per quanto è un grande pretesto per mostrare l’attaccamento di alcuni esseri umani e la paura di morire ed essere soli (in questo i boschi canadesi del finale sono una chiusa impeccabile per la vecchia Arma X), è Patrick Stewart ad impressionare per contributo e precisione. Non è il fatto di recitare bene l’anzianità ma di capire bene come Hugh Jackman sia (per quasi tutto un film) un motore di sola acredine e che a lui invece tocchi modulare i toni di ogni scena. Xavier con i piccoli contributi dà i tempi, controlla l’umorismo, il sentimentalismo e l’azione, è usato come un volante che dà direzione al film. In questa maniera anche il piccolo momento Amarcord, in cui si rivangano i vecchi tempi, non suona fuori luogo e anzi ha una piacevole fuoriuscita metacinematografica (il pubblico effettivamente è invecchiato con personaggi che per la prima volta ha visto quasi 20 anni fa interpretati da questi stessi attori).