[Berlinale 2017] Insyriated, la recensione
Con un appartamento, alcuni personaggi e le scelte più difficili da prendere Insyriated infonde tensione ad una storia di grandissima umanità
Questa giornata nella vita di un appartamento di Damasco secondo il belga Philippe Van Leeuw (ex direttore della fotografia al secondo lungometraggio da sceneggiatore e regista), è una maniera di mettere in scena con la suspense che il pubblico merita l’impossibilità di risolvere i più acuti dilemmi morali.
C’è infatti il sapore dello scontro di ideali, valori e morali dei più grandi capolavori western in Insyriated, quella maniera cioè in cui un ambiente selvaggio, nel quale non ci si può appellare a nessuna legge che non sia quella della propria integrità, uomini e donne sono chiamati a decisioni piccole che hanno esiti immensi.
Con un apprezzabile agio Philippe Van Leeuw lascia allo spettatore tantissimo spazio per prendere la propria posizione, con o contro, per chiedersi cosa sia più giusto, cosa più umano e quali difetti siano i più comprensibili. Arrivando da solo alla più umana delle conclusioni. Non c’è quel senso della tensione del dialogo dei film di Farhadi, ma semmai un continuo dilemma umano che chiama a gran voce la necessità di una schiena dritta. Se solo fosse possibile tenerne una in simili condizioni.
Un film come Insyriated, un film di guerra d’interno, un film di teste e di psicologie, di dialoghi, di inquadrature e punti di vista, di paura (tantissima) e di umanissima comprensione, fa molto di più per la divulgazione del significato vero della tragedia che è un conflitto urbano di mille altre pellicole a tema, politicamente schierate, fattualmente comprovate e perfettamente allineate con la cronaca, ansiose di dimostrarsi “giuste”.
Perché questo qui, quello di Insyriated, è in parole povere il lavoro del cinema: raccontare gli esseri umani e le conseguenze delle loro scelte.