[Berlinale 2017] Headbang Lullaby, la recensione

Nella più delirante delle ambientazioni Headbang Lullaby mette insieme fobie sociali, traumi cranici, visioni e interferenze pop per raccontare il Marocco nel 1986

Critico e giornalista cinematografico


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Al centro di Headbang Lullaby c'è il delirio di un agente marocchino che, ricevuto un colpo in testa particolarmente forte e grave (la prima parola del titolo), vive da quel momento come all'interno di una crisi da stress post traumatico in cui si fa cullare (la seconda parola del titolo) in una follia nella quale fa intereferenza tutto. Siamo nel 1986 e la vittoria del Marocco sul Portogallo nella coppa del mondo di calcio sembra dare nuova linfa al poliziotto traumatizzato.

Ambientato in gran parte su un cavalcavia in mezzo all'autostrada che sembra sostituire quello che nel cinema americano è il luogo comune del deserto (posto di allucinazioni, scoperta delle proprie pulsioni, rivelazione mistica), Headbang Lullaby fa collassare una serie di immagini e pulsioni diverse nella normale giornata infernale di questo poliziotto fallato, in missione per conto di qualcuno sentito al telefono (come in Hotline Miami) ma che forse si sta inventando tutto.

Tra reminiscenze di fedeltà al re, e cortociruiti pop provenienti dai segnali televisivi e radiofonici che capta con la placca di metallo che ha in testa (c'è una surreale rivalità tra una città chiamata Coca Cola e un'altra chiamata Bibsi Cola), troverà bambini, madri e colleghi anche peggiori di lui.
Dove batta il cuore del film è presto detto, lo mostra bene la scena in cui in preda al dolore un agente inflessibile e violento implora una signora che l'ha ricoverato sul suo divano di picchiarlo con il suo stesso manganello. Alla visione di questa placida donna di deserto marocchino che picchia un esponente dell'ordine con un manganello, gli altri uomini del paese comicamente impallidiscono. Non è il solo momento da ridere di questo film che tuttavia ha il terribile difetto di essere troppo lungo.

Hicham Lasri non riesce infatti a reggere fino in fondo il minutaggio eccessivo del suo delirio a cui un taglio di una mezz'ora avrebbe fatto benissimo. Il delirio di vento (enfatizzato da oggetti che svolazzano oltre che dal sound design), di color correction arancione e blu e infine di inquadrature sghembe da Terry Gilliam risulta facilmente monotono nonostante una capacità inventiva non da poco.
È un peccato perché la maniera in cui nella testa del protagonista confluisce un immaginario consumistico e pop indotto da un incidente durante delle rivolte che era stato chiamato a sedare, e quello in cui tutto ciò è contaminato dall'euforia calcistica e da una serie di terribili paure per le divisioni interne del proprio popolo, non è niente male. Di tanti film che approcciano fobie e ansie per il proprio futuro sociale con un realismo ai minimi termini di significato, finalmente uno che lo approccia con il delirio che forse meriterebbe.

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