[Berlinale 2017] El Bar, la recensione

Furioso e distruttivo come sempre in El Bar de la Iglesia usa diversi generi e il suo amore per ciò che è respingente per i propri fini

Critico e giornalista cinematografico


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Nonostante il terrorismo sia il tema più importante nella vita della comunità europea dei nostri anni, sono pochi i film prodotti nel continente ad affrontarlo. Ancora di meno quelli che più che parlare dei fatti o delle persone, affrontano la sensazione e le conseguenze del terrorismo. Tra questi El Bar è il più sottile perché lo nomina forse una volta sola, ma con la sua storia di persone prigioniere in un bar da qualcosa che spara a chiunque esca, lavora sulla paura, sul timore dei nostri simili, della violenza che è accanto a noi. Non il terrorismo fuori da noi ma quello dentro di noi.

Poi la trama evolverà in molte direzioni (complotti, nascondigli, sopravvivenza…) assecondando quella fantastica gioia del fare cinema e mangiare voracemente immagini, stereotipi, topoi e divertimento di questo regista meraviglioso, ma l’idea di avere a che fare con le proprie paure che portano ad una violenza tra pari immotivata rimane.

Come sempre capita quando de la Iglesia collabora con lo sceneggiatore Jorge Guerricaechevarria c’è una piccola Comunidad al centro di tutto, un insieme di personaggi eterogenei che ci viene ben mostrato in un attacco fulmineo, in piazza, in quella che pare una ripresa unica passando dall’uno all’altro, quando ancora sono presentabili, prima che tutto il film li massacri, li distrugga, li provi fisicamente e mentalmente così tanto da ridurli ai minimi termini. Perché in Alex de la Iglesia ogni storia al cinema è la cronaca di come una serie di corpi vengono esasperati e massacrati. I ciccioni, i malati, i morti, gli squallidi, gli sporchi i poveri e i belli, i puliti, le vecchie e le giovani, ci sono tutti e per ognuno la stazza o la qualità della pelle ha un’importanza fondamentale nella trama e nel modo in cui sarà mortificato. Ognuno finirà apparendo come l’opposto di quel che era.

Ma ancora di più c’è in quest’opera di puro genere che non vuole scegliere a quale appartenere (in certi punti assomiglia al classico horror da Stephen King, in altri ad un film di tensione, poi ancora ad uno di pandemia) un collasso dell’attualità nelle dinamiche finte e fantastiche che è meraviglioso. Credendo fermamente nella forza del falso e dell’artificioso de la Iglesia è l’unico a prendere il toro per le corna ogni volta che gli preme dire qualcosa ed andare al dunque. L’unico non solo a non schifarsi del gore e dell’esibizione di tutto ciò che è repellente al tatto e al pensiero ma ad usarlo per un ragionamento. Tutto quello che sta accadendo nel nostro continente ha un effetto su di noi, su tutti noi, e per questo siamo diversi.

E se inizialmente, quando la gran parte della trama è ancora oscura, El Bar si diverte a far passare in televisione spezzoni di film horror in cui si dice ciò che i personaggi non osano dire ma pensano, andando avanti sarà un terribile buco per passare attraverso il quale bisogna oliare il proprio corpo e poi imbrattarlo di escrementi il nodo fondamentale, quello che porta al consueto lunghissimo finale d’azione in stile de la Iglesia.

Benché non tutto sia perfetto in questo film (molto forzate alcune azioni e reazioni, molto sbrigativi alcuni passaggi) come sempre è nei dettagli di arredamento e costumi e poi negli attori come Blanca Suarez e Jaime Ordóñez che il film trionfa e trova corpi perfetti, pieni di contraddizioni, capaci di passare là dove non si direbbe, pelli da schiacciare, strizzare, strozzare e manipolare per arrivare dove gli preme, in un finale fintamente consolatorio alla fine della consueta “tempesta de la Iglesia”.

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