[Berlinale 2017] El Bar, la recensione
Furioso e distruttivo come sempre in El Bar de la Iglesia usa diversi generi e il suo amore per ciò che è respingente per i propri fini
Poi la trama evolverà in molte direzioni (complotti, nascondigli, sopravvivenza…) assecondando quella fantastica gioia del fare cinema e mangiare voracemente immagini, stereotipi, topoi e divertimento di questo regista meraviglioso, ma l’idea di avere a che fare con le proprie paure che portano ad una violenza tra pari immotivata rimane.
Ma ancora di più c’è in quest’opera di puro genere che non vuole scegliere a quale appartenere (in certi punti assomiglia al classico horror da Stephen King, in altri ad un film di tensione, poi ancora ad uno di pandemia) un collasso dell’attualità nelle dinamiche finte e fantastiche che è meraviglioso. Credendo fermamente nella forza del falso e dell’artificioso de la Iglesia è l’unico a prendere il toro per le corna ogni volta che gli preme dire qualcosa ed andare al dunque. L’unico non solo a non schifarsi del gore e dell’esibizione di tutto ciò che è repellente al tatto e al pensiero ma ad usarlo per un ragionamento. Tutto quello che sta accadendo nel nostro continente ha un effetto su di noi, su tutti noi, e per questo siamo diversi.
Benché non tutto sia perfetto in questo film (molto forzate alcune azioni e reazioni, molto sbrigativi alcuni passaggi) come sempre è nei dettagli di arredamento e costumi e poi negli attori come Blanca Suarez e Jaime Ordóñez che il film trionfa e trova corpi perfetti, pieni di contraddizioni, capaci di passare là dove non si direbbe, pelli da schiacciare, strizzare, strozzare e manipolare per arrivare dove gli preme, in un finale fintamente consolatorio alla fine della consueta “tempesta de la Iglesia”.