[Berlinale 2016] Where to invade next, la recensione

Con le forzature tipiche Michael Moore, Where to invade next vuole rivedere la mitologia nazionalista americana attraverso le immagini che l'hanno prodotta

Critico e giornalista cinematografico


Condividi

Che Michael Moore sia Michael Moore lo sappiamo bene e lo sa anche lui, che al suo stile rimane molto legato, nei suoi pregi e nei suoi difetti, e che al procedere della carriera sembra sempre più incastrato in un ruolo scomodo unicamente a parole ma molto futile in realtà. Semplicistico nella messa in scena e sempre più fazioso e parziale nella ricostruzione dei suoi documentari a tesi, il regista sembra disposto a tutto per dimostrare ciò che cerca e per piegare alla propria ideologia il mondo. Non si può nemmeno parlare di documentari tra realtà e finzione perché le “omissioni” di Moore non sono finalizzate al raggiungimento di una verità più alta, anzi mirano semmai ad una più bassa, data non dalla poesia, dalla suggestione o dal linguaggio del cinema ma da prove, fatti ed evidenze che spesso non sono proprio tali.

Questa volta in Where to invade next parte alla volta di diversi paesi, non filma niente sul suolo americano ma tutto tra Italia, Francia, Islanda, Germania, Slovenia, Tunisia, Finlandia, Norvegia e via dicendo. Ad ogni tappa affronta una soluzione brillante che quello stato ha posto a problemi comuni con gli Stati Uniti, dal welfare, alle ore di lavoro, dall’educazione alimentare, al sistema universitario, fino al sistema penale e alla parità di diritti. Tutto è raccontato con il consueto amore di Moore per i piccoli freak e il ridicolo umano messo in evidenza con un umorismo di montaggio (arte nella quale, all’interno del documentario, ha pochi rivali) e tramite la sua consueta cocciutaggine nel raccontare solo quel che gli serve. Nonostante infatti qui ammetta che i paesi di cui parla “hanno anche molti altri problemi”, lo stesso le sue soluzioni idealizzate sono versioni edulcorate di buone politiche e non coperte che curano tutto (come qualcuno ha anche l’accortezza gli ricordargli).

Questo è il suo documentario che più di tutti forse è indirizzato e può avere senso solo per un pubblico statunitense, gli altri sanno troppo bene che molte delle cose che descrive non stanno esattamente come le mette e non hanno bisogno di abbattere quell’immagine mitica del suo paese che Moore attacca. Non può infatti non rimanere impresso come questo cineasta da solo cerchi di rivedere il mito nazionalista del cinema americano. Tutta la filmografia di Moore demolisce l’immagine dell’America attraverso le stesse immagini con le quali Hollywood l’ha creata. Con spezzoni di film ma soprattutto con la maniera nella quale mette in scena il suo corpo, Moore demistifica molti dei luoghi comuni e delle immagini con le quali l’America ha costruito il suo mito. Dai volti dei militari, all’uso della bandiera, dall’epica trionfalistica fino alla grandeur nazionalista, il vero senso ultimo di questo cineasta forse è più semiotico e cinematografico.

Continua a leggere su BadTaste