[Berlinale 2016] Trivisa, la recensione

Tre registi per una storia che sembra diretta da uno solo, Trivisa racconta il momento più importante del cinema e della storia di Hong Kong

Critico e giornalista cinematografico


Condividi

C'è il logo della Milkyway Image di Johnnie To prima dell'inizio di Trivisa, marchio di garanzia del poliziesco cinese, bollino di qualità che non tradisce. Questa storia con tre registi, ognuno assegnato ad un personaggio diverso e una trama diversa ma tutte fortemente incrociate, si svolge a cavallo dell'handover, quando cioè Hong Kong nel 1997 è passata dall'essere colonia inglese ad essere città cinese. In quel periodo alcuni grandi e noti criminali che hanno intrapreso strade diverse finiscono per trovarsi nello stesso ristorante allo stesso momento, parte da lì la voce che si stiano riunendo per affrontare insieme il cambiamento. Uno di loro crede alla voce e decide di organizzare davvero la riunione e dar vita ad una grandissima gang. Per questo motivo li sta cercando tra Hong Kong e la mainland cinese. Quello che non sa è che mentre uno è inafferrabile, agisce da solo, nessuno ne conosce il volto e cambia continuamente identità, l'altro da qualche anno ha un business legittimo e si scontra con grande frustrazione contro la corruzione del sistema cinese.

Ovviamente è la disperazione la linea guida del film, la solitudine e il senso di abbandono di uomini lontani da tutto, in balia degli eventi e che sembrano anche incapaci di dominare le loro stesse operazioni. Quello fu un momento di trasformazione fondamentale per la società di Hong Kong, uno che segnò la morte di un certo cinema rivoluzionario che si faceva in quegli anni (e di cui Johnnie To è rimasto uno degli ultimi depositari) in Trivisa, tre nuovi registi affrontano quel genere e quel momento storico.
I tre segmenti non sono separati ma continuamente incrociati per dare l'idea di un film unico con uno stile è abbastanza uniformato. Tre teste per un film che appaia come realizzato da una sola. Il risultato è di impressionante invisibilità, non si sentono mai le cesure o i passaggi di mano e soprattutto l'aria che si respira è sempre la medesima, quella sensazione di muoversi in un ambiente alla fine del mondo (la stessa di Fuochi d'artificio in pieno giorno), in cui le regole non esistono e anche la malavita non è poi così tanto organizzata.

Tenendo al minimo indispensabile la violenza (peccato) ma lavorando benissimo sui caratteri comprimari e le spalle, Trivisa si schiera fieramanete dalla parte del mondo criminale, lo riprende come l'unico dotato di un codice e non teme di contrapporlo all'ipocrisia e alla finzione del "sistema" governativo o degli organi più o meno legittimi che gli si oppongono e che approffittano della crisi e dell'incertezza creati dal passaggio alla Cina. In questo film in cui praticamente la polizia non esiste ma ci sono solo criminali che agiscono indisturbati, con l'unico problema dei propri confini morali, della propria missione o del proprio posto nel mondo, sembra che il confine tra vita e morte, cosi labile nel mondo malavitoso, sia la metafora migliore del nichilismo di quegli anni e soprattutto di questi in cui viene realizzato il film.

Continua a leggere su BadTaste