[Berlinale 2016] The Commune, la recensione

Uno dei più insulsi film di Vinterberg. The commune non riesce a gestire a dovere i molti personaggi, indugiando sui peggiori ricatti sentimentali

Critico e giornalista cinematografico


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C'è sempre la convivenza nei film di Vinterberg ed è sempre una guerra in cui alcuni, più potenti (per status, carattere, posizione, età o solo attitudine), causano la sofferenza di altri, più deboli. Il nucleo fondamentale della convivenza chiaramente è la famiglia, ma l'interesse del regista sembra essere più per le piccole comunità (di cui la famiglia è solo un esempio in scala ridotta). In questo suo ultimo film la comune del titolo è una fusione di tutto quello di malato che implica una famiglia (gli affetti estremi ma non sempre corrisposti, l'esposizione dell'egoismo, l'affezione anche a chi sta per morire) con tutto quello che è necessario fare per convivere tra sconosciuti.

La storia è quella di un esperimento, amici o anche solo conoscenti decidono di vivere tutti insieme nella stessa grande casa, condividendo un tetto, spese e soprattutto decisioni. Il problema più grande però è la storia di infedeltà che il padre di una famiglia interna alla comune svela subito, dopo la prima notte d'amore. Ha una ragazza più giovane, una sua studentessa, e vuole lasciare la moglie, a cui però non impone di abbandonare la grande casa, anzi. La fine del legame familiare ma il permanere di quello sociale della comune getta la donna sempre di più in un baratro di depressione che la colpisce tanto quanto lo spettatore, affranto non tanto dalla decisione (coraggiosa per quanto difficile) ma dalla cretineria con cui è portata avanti.

Il primo dei molti problemi del film sta nel suo esse solo fintamente corale. Con circa 8 personaggi da gestire riesce a crearne solo un paio di realmente completi, e anche quei due, marito e moglie, vivono di estremismi, di slanci solo parzialmente motivati e i loro momenti più convincenti sono quelli in cui si dimostrano semplicemente banali. I pianti e le grida sommesse, gli eccessi di rabbia o i mutismi sembrano la loro sola chiave espressiva, mentre sullo sfondo la comune è animata da figure abbozzate molto male, ispirandosi quasi all'animazione, puntando a disegnare stereotipi che sono tali in virtù delle mossette che fanno, dei tormentoni, dei vestiti o del loro statuto. Ancora peggio di quanto non si vedesse nei catastrofici anni '70, l'ensemble del film è composto dalla frivola, il sentimentale, il burbero, l'ansioso...

Come se non bastasse, a tutto ciò Vinterberg pensa di aggiungere anche una trama che riguarda due figli. Una è la bambina della coppia al centro di tutto, 14enne in attesa di iniziare a creare un proprio nucleo, pronta ad aprirsi a nuovi amori che saranno grottescamente condivisi con la comune. L'altro è una bambino di nove anni con problemi cardiaci, destinato a vivere poco e di fatto una bomba ad orologeria drammatica, un dispositivo di sceneggiatura bieco (il bambino dolce e malato che potrebbe lasciare un vuoto incolmabile in ogni momento) pronto ad esplodere in un trionfo di kitsch da un momento all'altro. Eppure, nonostante la prevedibile ruffianeria cui è finalizzata la sua presenza, lo stesso la maniera in cui Vinterberg decide di chiuderne la parabola è forse l'allegoria più stupida ed infantile vista al cinema (per giunta in un festival!) negli ultimi anni.

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