[Berlinale 2016] Saint Amour, la recensione
Scalcinato, affezionato al brutto ma irresistibile, Saint Amour è una commedia che trova la risata dove tutti gli altri cercano il dramma
Qualsiasi cosa questi due registi raccontino, anche il più banale viaggio di un padre e un figlio alla riscoperta del loro rapporto, dell’amore e del piacere della vita come esorcismo per la morte della moglie/madre, diventa una grottesca e scalcinata passeggiata nella disperazione comica. Qui i due prendono a calci Sideways e tutto il mondo delle sofisticate commedie enologiche. I loro protagonisti, sempre rigorosamente degli “ultimi”, decidono di passare due giorni in vacanza dentro al paradosso, girando il sud della Francia in un viaggio di vigneto in vigneto. Non solo però girano in taxi, coinvolgendo un tassista senza futuro come loro e finendo per spendere senza motivo migliaia di euro in tassametro, ma di tappa in tappa bevono vini presi nei supermercati o nei camioncini per strada. Eccezion fatta per il Saint Amour del titolo, comunque degustato con violenza e furia, maldestramente mascherata da raffinatezza.
Proprio abbassando ciò che già conosciamo, facendo in modo che i loro protagonisti, come dei bambini, imitino i “grandi” ma in maniera scalcinata con un’ostentata ignoranza, bruttezza e povertà, i due autori risvegliano una tenerezza umana coinvolgente.
Se Mammuth e La grand soir erano stati due passi falsi, adesso Saint Amour, unendo i protagonisti di quei due film (Depardieu è il padre, Benoit Poelvoorde il figlio), trova la quadratura. Rivendicando per sè tutto ciò che gli altri condannano, dal bere per ubriacarsi, al godimento anche effimero, dal desiderio di non avere responsabilità, all’inevitabile sconfitta sempre presente, Saint Amour unisce quello che il cinema più scemo separa. Senza nessuna redenzione i due scemi comici del film rimangono fieramente ignoranti e fieramente ultimi, contadini in un mondo che non ama i contadini, eppure alla fine si riconciliano lo stesso con l’amore e il piacere.