[Berlinale 2016] Chi-raq, la recensione

Musical senza musica Chi-raq trova il ritmo nella lingua parlata, nei versi che si fondo con la cadenza da ghetto. Peccato sia così appesantito al centro

Critico e giornalista cinematografico


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Da qualche tempo lo stile di Spike Lee ha cominciato a spostarsi dai grandi movimenti di macchina alle inquadrature statiche. Dal movimento dell'immagine al movimento nell'immagine. E anche la ricerca formale che si affacciava solo ogni tanto nelle sue messe in scena sembra ora una costante. Chi-raq nella sua dimensione di musical è una calamita per questo nuovo approccio, un tripudio di colori saturi, elaborate concordanze cromatiche sia nelle scenografie che nei costumi e ovviamente coreografie, un po’ in armonia al genere e al suo modo surreale di saturare l’immagine, un po’ una fissazione personale.

L’elemento più sorprendente del film però è il suo essere musical senza musica. Non ci sono canzoni nè una colonna sonora particolarmente in evidenza in Chi-raq, anzi a tratti il commento musicale è sottotono e minimale. La musica di questo musical sta invece nella recitazione tutta in versi, nella ritmica con la quale sono pronunciate le battute, nel battere del gergo del ghetto, nell'incedere del maestro di cerimonia Samuel L. Jackson che del film è narratore e che a tutti sembra dare il tempo. Vederlo doppiato, semplicemente non ha senso, cambia il genere al film.

Ovviamente in questa scelta formale determinante sta almeno metà del fascino del film. L'altra metà, ovvero la trama presa dalla Lisistrata di Aristofane, non sembra trattata altrettanto bene. La storia è quella di un gruppo di donne capitanato da Lisistrata che decide di fare uno sciopero del sesso per ottenere la fine della guerra tra gli uomini. Nel film quest'idea partita da Chicago sarà adottata in tutto il mondo portando alla pace mondiale e a iperboliche conseguenze positive (quelle sì degne di un'idealismo dorato da musical classico). Spike Lee sceglie di adattare senza ridurre, e alla fine il suo film dura troppo per colpa di una parte centrale esagerata e fiacca.
Nonostante possa contare su una grande interprete Teyonah Parris, corpo femminile straordinario che Spike Lee con intelligenza riprende spesso dalla testa a piedi mentre cammina, mentre si muove e mentre utilizza il fisico per quello che ha da dire, lo stesso questo film che sembra aver capito tutto su come utilizzare il ritmo interno alle scene senza bisogno di vera musica non riesce ad appassionare per lunghi tratti.

Con un montaggio che avrebbe meritato una candidatura all'Oscar, Chi-raq si batte per affermare sul più basilare dei principi (non fate la guerra fate l'amore) la più audace delle scelte linguistiche e assieme la più coerente delle scelte sociali. Se infatti tutto il cinema di Spike Lee è dedicato ad indagare il problema della convivenza (sia essa interraziale che intrarazziale), è anche vero che spessissimo il mondo da lui è raccontato è il proprio, quello afroamericano, di suo caratterizzato, specie negli strati più bassi, da una spiccata dimensione ritmica della lingua.

Se un film così poteva avere senso solo se ambientato nei ghetti neri insomma, dopo averlo visto è chiaro che i ghetti neri al cinema meritano una messa in scena sola, ed è questa.

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