[Berlinale 2016] Chi-raq, la recensione
Musical senza musica Chi-raq trova il ritmo nella lingua parlata, nei versi che si fondo con la cadenza da ghetto. Peccato sia così appesantito al centro
L’elemento più sorprendente del film però è il suo essere musical senza musica. Non ci sono canzoni nè una colonna sonora particolarmente in evidenza in Chi-raq, anzi a tratti il commento musicale è sottotono e minimale. La musica di questo musical sta invece nella recitazione tutta in versi, nella ritmica con la quale sono pronunciate le battute, nel battere del gergo del ghetto, nell'incedere del maestro di cerimonia Samuel L. Jackson che del film è narratore e che a tutti sembra dare il tempo. Vederlo doppiato, semplicemente non ha senso, cambia il genere al film.
Nonostante possa contare su una grande interprete Teyonah Parris, corpo femminile straordinario che Spike Lee con intelligenza riprende spesso dalla testa a piedi mentre cammina, mentre si muove e mentre utilizza il fisico per quello che ha da dire, lo stesso questo film che sembra aver capito tutto su come utilizzare il ritmo interno alle scene senza bisogno di vera musica non riesce ad appassionare per lunghi tratti.
Con un montaggio che avrebbe meritato una candidatura all'Oscar, Chi-raq si batte per affermare sul più basilare dei principi (non fate la guerra fate l'amore) la più audace delle scelte linguistiche e assieme la più coerente delle scelte sociali. Se infatti tutto il cinema di Spike Lee è dedicato ad indagare il problema della convivenza (sia essa interraziale che intrarazziale), è anche vero che spessissimo il mondo da lui è raccontato è il proprio, quello afroamericano, di suo caratterizzato, specie negli strati più bassi, da una spiccata dimensione ritmica della lingua.