[Berlinale 2016] A Quiet Passion, la recensione
Il meno audace e il più controllato dei film di Davies, A Quiet Passion sembra un'opera su commissione ma lo stesso non ha il passo dei suoi simili
La protagonista è la poetessa Emily Dickinson e il film ambisce a raccontarne la vita, non tanto soffermandosi sugli eventi ma sull’approccio e lo scontro con una società non delle più morbide. Dunque non ciò che accadde ad Emily Dickinson ma come le condizioni che ne hanno influenzato il vivere abbiano influito e decretato il suo umore, il suo temperamento e le sue idee. L’intento è subito evidente dalla serie di straordinarie contraddizioni messe in scena (sempre più potenti con il procedere degli anni), da come una giovane ribelle che gode del proprio ribellismo diventi una donna matura piena di amarezza e rimpianto.
Non c’è agiografia né mitologia, semmai è una valanga di compassione quella che caratterizza il film, onesto e spietato con i suoi soggetti ma purtroppo totalmente privo di quell’aura soffice ed emotiva che caratterizza Davies. Per quanto il punto e l’angolatura con cui questo autore approccia la storia abbia dell’incredibile, specie nell’anticonformismo di una messa in scena educata e compita che tuttavia sovverte ogni più elementare regola del dramma in costume (per non dire del cinema biografico), lo stesso sembra che l’audacia stilistica di Davies non abiti A quiet passion. Se già Sunset Song aveva abbandonato quello stile da avventuriero della forma e quell’audacia al limite dello sperimentale dei lavori precedenti a favore di un tono invisibile da epopea, qui sembra di assistere ad un lavoro su commissione.