Miles Ahead si apre con una finta intervista al Miles Davis interpretato da
Don Cheadle, una in cui il trombettista mette in difficoltà l’intervistatore già alle prime battute, ne contesta domande e stile, e quando gli viene chiesto come lui, allora, riassumerebbe la sua musica e la sua ricerca, Davis afferra la tromba, lentamente la appoggia alle labbra, prende fiato e la nota forte, secca, netta, sparata che fa uscire a sorpresa è sovrapposta con il rumore altrettanto forte di macchine, clacson, ruote che stridono e pistole che sparano da un inseguimento. Con uno stacco di montaggio a strappo tra quel momento (la nota è solo accennata come se uscendo dalla tromba si fondesse con il rumore più caotico e selvaggio dell’altra scena che arriva)
Cheadle attacca alla giugulare il film che oltre ad interpretare ha scritto e diretto. Non è difficile vederci dentro, in questa soluzione bella e dura messa proprio all’inizio, una dichiarazione d’intenti. Tutto il resto del film sarà all’insegna dell’avanti e indietro nel tempo con stacchi di montaggi brutali ma sensati, quasi animaleschi, eppure quella botta di tromba che diventa l’esemplificazione tipica dell’adrenalina al cinema, ha detto tutto.
Per questo motivo, per l’evidente potenza istintiva della maniera in cui Cheadle vuole accostare per davvero la forma del cinema con la musica di cui intende parlare in questo film su Miles Davis (forse non è nemmeno definibile “biografico” visto quanto poco la vita del suo soggetto sia al centro della narrazione), è difficile essere obiettivi e ammettere che Miles Ahead non centra proprio tutto. Questa trama quasi poliziesca di una registrazione rubata e da recuperare che mette in moto la strana coppia formata da Davis e dal giornalista di Rolling Stone, interpretato da Ewan McGregor, intenzionato a fare uno scoop sul suo ritorno alla musica (l’anno in cui sì svolge il film è al culmine del grande silenzio del trombettista, alla fine degli anni ‘70, poco prima del ritorno), il primo burbero, severo e violento, il secondo impacciato ma determinato, non è il massimo. Tuttavia il modo in cui Cheadle si ostina a strappare le parti di storia invece che accostarle, a massacrare col montaggio e nel finale anche con le sovrapposizioni di piani diversi, qualsiasi regolarità, ma anche la maniera in cui utilizza una violenza formale per associare ricordi, droga, ossessioni e musica non può lasciare indifferenti.
Forse colpevole di un po’ di ingenuità nel mettere tutto (troppo!) nel suo primo film,
Cheadle è anche meritevole di stima per l’aver voluto ideare e realizzare un film durissimo e passionale (con tutta l’ingenuità che questa scelta si porta appresso) che non accosta mai il jazz alle sensazioni cui più banalmente viene associato (coolness, relax e vita intellettuale) ma anzi alla sua radice animale, ad uno stile di vita malato che corrode dentro e uccide, alla droga, alle donne e alla furia espressiva. Miles Davis, come ricorda lui stesso, nella sua carriera ha superato il jazz alla ricerca di altro, e
Cheadle vuole anche quello. Vuole anche la fusion, il funk, il pop, cerca tutte le ossessioni del suo soggetto, inclusa la passione per la novità (che cosa rinfrescante!). In questo film è tutto così giusto e così meravigliosamente al suo posto che è veramente difficile lasciarsi buttare giù dai molti semplicismi e dai momenti in cui la storia imbastita si rivela storiella.
Un finale di musica reale poi non fa che aumentare la stima per un film che dimostra di avere la considerazione più alta possibile della musica di cui intende parlare.