[Berlinale 2016] Fuocoammare, la recensione

Un documentario con uno sguardo unico, Fuocoammare è poco intenzionato a dare informazioni, molto a restituire il respiro e le sensazioni dei luoghi

Critico e giornalista cinematografico


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A Lampedusa si va per filmare i migranti, a Lampedusa si va per raccontare storie di disperazione, morte e legalità, per riprendere i confini del nostro paese (e della civiltà europea) che si scontrano con i confini di un altro mondo. Gianfranco Rosi è andato là, per un anno, e il materiale con il quale è tornato non era questo, o meglio non solo.

In Fuocoammare ci sono alcune delle più importanti immagini degli sbarchi (perchè mai realmente asettiche ma sempre ragionate) assieme ad alcune delle meno influenti, c’è un realismo devastante delle piccole cose, delle canzoni e dei cadaveri, della gente disidratata e dei telefonini delle vittime, ma anche la vita nell’isola. In questo film non c’è una narrazione vera e propria di cosa accada lì ma il racconto di quali siano le sensazioni che si respirano in quell’aria, dal massimo del disperato al massimo dell’ingenuo.

Tutto il film si svolge su due binari paralleli: la vita di un bambino figlio di pescatori, sofferente il mal di mare, appassionato di fionda e con un occhio pigro che deve curare portando una benda (ma proprio a quell’occhio che usa per la fionda e quindi adesso non ha più una buona mira) e la vita dei migranti, in arrivo spossati e distrutti, rassegnati a condizioni assurde ma anche a tratti pieni della stessa vitalità del bambino.
Rosi riesce sia a mostrare, senza alcun commento, qualcosa di nuovo riguardo all’argomento più abusato e rappresentato che ci sia (anche se in linea di massima rappresentato male, senza idee) di questi anni. Gli sbarchi di Fuocoammare sono totalmente inediti perché lo sono il punto di vista e i dettagli che vengono scelti. La realtà è uguale per tutti, il punto di vista no e questo Rosi lo fa valere in ogni inquadratura, con ogni stacco di montaggio tra le due storie. Per quanto paradossale, sembra che là il regista abbia trovato il lato più positivo e ottimista di quella che rimane una tragedia.

Se Sacro GRA o Below Sea Level erano grandi affreschi comunitari, qui pur contando su un buon numero di “personaggi”, il racconto è decisamente più intimo. Per quanto vaghi in lungo e in largo alla fine la figura retorica scelta è sempre la sineddoche, due piccoli esempi per parlare di una zona geografica più ampia, una signora in cucina che ascolta radio per raccontare un mondo. Le scene quotidiane che Rosi cattura con uno stile da camera di servizio, senza muovere praticamente mai l’inquadratura ma lasciando che i soggetti la animino con i loro movimenti (sempre spontanei, mai diretti) non scrive nessuna storia, non traccia nessuna parabola ma assembla pezzi di un sguardo parziale. La radio locale e le sue richieste accanto a chi le ascolta, i sughi che cuociono e poi la mancanza d’acqua sui barconi, le tute bianche e le maschere sul volto. Una vita civile e occidentale che sembra venire da un altro mondo rispetto a quella barbara di quella parte del medioriente o dell’Africa che viaggia verso l’Europa. Privo degli accenni di genere e dell’incredibile forza grottesca e poetica che aveva Sacro GRA, Fuocoammare è un film più piccolo e modesto ma non per questo banale.

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