[Berlinale 2016] Creepy, la recensione

Troppo concentrato su una trama gialla poco appassionante e poco concentrato su quel che gli riesce meglio, Creepy solo a tratti mostra il miglior Kurosawa

Critico e giornalista cinematografico


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Quella di Creepy è la storia di un doppia indagine, una reale, da parte di un poliziotto ora ritiratosi e diventato professore universitario di criminologia, e una cinematografica, da parte dello spettatore. L'indagine del poliziotto riesuma un vecchio caso di sparizione per il piacere di un collega professore e per quell'insopprimibile curiosità personale che il brutto incidente, da cui l'allontanamento dal corpo di polizia, non ha sopito; quella del pubblico invece è ambientata nella vita privata del protagonista, principalmente tramite gli eventi, a cui nessuno pare badare tranne noi, che ne coinvolgono la moglie con la quale si è da poco trasferito in un nuovo quartiere. I vicini oscillano tra il poco socievole e l'inquietante, nondimeno lei comincia a stringere un legame con uno in particolare, un padre con figlia e moglie sempre nascosta. Le due indagini lentamente finiranno per unirsi nella maniera meno prevedibile, dimostrandoci che non siamo in grado di capire niente da soli, cioè senza il detective del film.

L'eco di molti altri film, nonchè dei gialli classici, è un urmore di fondo che in Creepy viene sfruttato per dar vita alla suspense. La furbizia dello spettatore che ordisce supposizioni, scruta le scene e cerca di prevedere gli esiti, è un 'arma che Kiyoshi Kurosawa gli rivolge quasi subito contro.

Sappiamo tutti che il vicino nasconde un mistero e sappiamo che questo non ci sarà svelato fino alla fine, ma il film stesso vuole fondarsi non tanto sull'esito della storia quanto sul gioco al gatto con il topo in sè. Ed è piacevole, sia chiaro, anche se non propriamente l'ambito in cui Kiyoshi Kurosawa si muove meglio. Viene spontaneo notarlo perchè ogni qualvolta questa trama gialla ha delle perdite, ogni qualvolta lascia fuoriuscire momenti di stralunato ma serissimo sentimentalismo, movimenti di macchina finalizzati a svelare una svolta emotiva, lì per un momento tutto sembra riprendere abbrivio, tutto sembra colorarsi e riempirsi di vita. Ma sono unicamente dei flash in un film purtroppo solo carino.

A Kurosawa per parlare come nessun altro basta alle volta anche solo un lungo carrello in avanti, così lungo da sembrare paradossale, insistito, inavdente e quasi iperbolico, uno che inquadra una donna con un uomo che potenzialmente è una minaccia per lei e, partendo dalle figure intere, nemmeno troppo lentamente lungo tutta la scena li stringe, fino ad arrivare ad avere solo i due volti inquadrati in un frame che a questo punto suona strettissimo e claustrofobico.

Altrove, in questa storia sentimentale fatta di incomprensioni soppresse, gli basterà invece un movimento interno della scena, lei che si va a mettere teneramente sopra di lui, inerte e impossibilitato a muoversi, durante una fase del film che invece dovrebbe essere dedicata alla tensione, per svelare senza parole e con l'unione di corpi e spostamenti una straziante sete d'amore inappagata. Sono sprazzi di quella capacità che gli riconosciamo da tempo di individuare come un'immagine e un movimento sappiano svelare sensazioni che le parole non sanno definire, attimi che usano la forza della composizione e la forzatura di alcune consuetudini del linguaggio del cinema, alcune discontinuità, per risvegliare lo spettatore e allertarne l'attenzione. Però, in un giallo così poco inventivo sono anche momenti isolati che fanno sperare in un film migliore che non arriva neanche nel cupo finale.

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