[Berlinale 2016] Ave, Cesare!, la recensione

Episodico, poco amalgamato e più forte nella teoria che poi nella pratica, Ave, Cesare! è una delusione illustre

Critico e giornalista cinematografico


Condividi
Ingiusto, accanito e bastardo, il Destino è di nuovo il protagonista di questo caotico coeniano. Stavolta al centro del ciclone che non facciamo in tempo a vedere in azione in A serious man (ma forse la storia stessa era quel ciclone) c’è Eddie Mannix, produttore per la Capitol Films, la longa mano ad Hollywood di un padrone che sta a New York. Il film passa 28 ore con lui, scandite magnificamente dal continuo ritornare ad inquadrare il quadrante del suo orologio da polso. Lui è il noir e la commedia insieme, sta cercando di smettere di fumare inutilmente, si confessa ad un prete ogni giorno, indaga su piccole questioni, tiene alla sua famiglia che vede poco ma soprattutto risolve problemi a tutti e tutti i problemi lo trovano. Sempre.

Vive quindi di episodi Ave, Cesare!, mescolati e intricati ma pur sempre episodi, collegati da tra loro proprio da Eddie. Episodi legati a diversi attori e legati a diverse produzioni della Capitol film, ognuna di un genere diverso.

Un attore molto importante che sta interpretando il protagonista di un kolossal su Gesù (ma lui fa un pretoriano che si convertirà) viene rapito da un collettivo di sceneggiatori comunisti che vogliono più soldi. Un’attrice di film di ballo acquatico è rimasta incinta ma non c’è un padre, la cosa farà male alla sua immagine e tocca trovarle un marito o una soluzione. C’è una star del cinema western a cui lo studio vuole rivedere l’immagine e che quindi deve recitare in un dramma sofisticato (non senza difficoltà). C’è un ballerino di tip tap in musical spensierati che cova qualcosa. Ognuno diretto da un regista possibilmente europeo in trasferta. A tutti Eddie trova soluzioni e produce storie, per tutti fa in modo che il loro lavoro scorra il più liscio possibile.

Il cinema è un circo. Viene detto spesso nel film ed è la metafora più abusata di tutte ma in Ave, Cesare! lo è davvero, la grande dote del film è di creare un ambiente fantastico in cui il produttore è l’impresario e tutti gli attori di questa fabbrica a getto continuo di scene e ciak, sono in realtà fenomeni da baraccone: la donna sirena, il funambolo a cavallo ma anche la star con talmente tanto carisma che incanta chiunque in un fantastico discorso finale, così coinvolgente, commovente e trascinante da diventare esilarante quando per un inezia viene interrotto, svelandone la natura artificiosa di battuta scritta da qualcun altro, semplice ciak da ripetere e al tempo stesso magia studiata a tavolino.

È vero che in quest’ultimo film dei Coen c’è un senso del mestiere del cinema, del produrre finzione con cinismo per soldi, del trasformare idioti in stelle, del realizzare oro dallo schifo, cioè da uomini e donne pessime, e tutto attraverso la tecnica, l’industria, la catena di montaggio: in una parola “il sistema” superiore agli uomini, anche ai comunisti che complottano contro di esso. Eppure, per quanto suoni strano e contraddittorio scriverlo solo qui nel rintano delle ultime righe, questo è anche uno dei film più sciapi dei fratelli Coen. Una commedia che non diverte, un film sofisticato che lo è molto di più nelle sue premesse e implicazioni che nella realtà dello svolgimento, per giunta montato a ritmo blando.

Aperto e chiuso da una confessione e dalla prima dichiarazione d’intenti della poetica che i Coen portano avanti da sempre (perché tutto si accanisce contro di me? Posso scegliere una vita più facile? È giusto? e la risposta è un gioiello), Ave, Cesare! è una delusione illustre, perché è più grande nel desiderio di quel che può essere che nella realtà di quello che è.

Continua a leggere su BadTaste