[Berlinale 2015] Woman in gold, la recensione
Ruffiano, semplicistico e pronto a tutto per conquistare gli spettatori (tranne impegnarsi), Woman in gold è una triste copia di Philomena
La storia è quella vera di Maria Altmann, ebrea fuggita da Vienna poco dopo l'arrivo dei tedeschi all'alba della seconda guerra mondiale, la sua famiglia era molto ricca e tra i diversi quadri che possedeva ne vantava uno di Klimt che fu sequestrato dalle SS e poi tenuto nei propri musei dallo stato austriaco. Decenni dopo, vista l'apertura dell'Austria alla restituzione delle opere d'arte rubate, Maria Altmann decide di volersi riprendere quello che è suo per ottenere giustizia da chi ha massacrato e umiliato la sua famiglia, ma scopre che non è così facile.
Prendendo il nemico per eccellenza (i nazisti) Curtis entra in un terreno spinoso, quello del cinema che azzera ogni complessità. Ogni qualvolta ci sono di mezzo le SS i film diventano a senso unico (come potrebbe essere altrimenti?), ai protagonisti viene concesso tutto sull'onda del giustamente inesauribile senso di giustizia contro gli orrori della Germania della prima metà del novecento e a perdere è come sempre il cinema, che si ritrova dei villain da operetta, sempre più ridicoli nel loro essere pura malvagità.
Il nazismo è una cosa seria, forse tra le più difficili in assoluto da filmare, perchè gli orrori reali se ripresi per quello che sono sembrano subito irreali, finti, esagerati, serve una comprensione umana profondissima per mettere in scena quegli abissi. Woman in gold non ce l'ha nè gli interessa averla, vuole solo un nemico indiscutibile contro cui scatenare il pubblico per averlo dalla sua mentre scorre un film senza qualità. E lo trova.