[Berlinale 2015] Vergine giurata, la recensione

Tarato tanto sulla forza interpretativa di Alba Rohrwacher quanto sui luoghi e i suoni Vergine Giurata trabocca di idee ma manca di intreccio

Critico e giornalista cinematografico


Condividi
Una volta tanto nel cinema italiano c'è un contrasto tra tradizione e modernità, tra campagna e metropoli che si risolve a favore della seconda. Una volta tanto un film d'autore italiano afferma che come stiamo oggi è meglio di come stavamo ieri, che le regole sociali della città e le conquiste umane del vivere cittadino sono migliori di quelle proprie di chi vive a contatto con la natura.
La storia è tratta dall'omonimo libro di Elvira Dones e parte da presupposti quasi etnografici: in una comunità di pastori montanari albanesi la donna non conta nulla, è più volte minacciata se prova a fare dei lavori seri, non ha potere di scelta sul matrimonio ed è vessata anche in casa. Le due sorelle che seguiamo hanno atteggiamenti diversi riguardo questa condizione, una deciderà di fuggire con il suo amore, l'altra di diventare "vergine giurata", cioè di assumere il ruolo di uomo, rinunciare a tutto ciò che la caratterizza come donna ed essere considerata un maschio da tutti. Anni dopo, la vergine giurata raggiunge la sorella in Italia, in città. Comincia a vivere con lei e lentamente sente emergere dentro di sè tutto quello che, con convinzione, aveva represso.
Il richiamo più naturale di tutti avviene nel luogo più civile, non in quello più "autentico".

Laura Bispuri comincia dai luoghi e soprattutto dai suoni a costruire questo passaggio, da quello che la sua protagonista vede e sente, muovendosi da un luogo di freddo caratterizzato dai rumori dei passi nella neve che possono annunciare un quasi stupro, al nuoto sincronizzato e il silenzio della piscina che annuncia un primo approccio al sesso maschile. In seconda battuta si affida ad Alba Rohrwacher che, come quasi sempre le capita, è precisa e austera nell'interpretare una donna che inizia a fingere di essere uomo e finisce quasi con il convincersene. Una macchina di dettagli che si scioglie in piccoli momenti di grande umanità. Non solo il taglio di capelli e le espressioni dure, ma la postura e la maniera in cui impugna gli oggetti, tutto nel personaggio di Hana tende al maschile con sempre meno convinzione.

Tra queste due direttrici (luoghi e suoni visti da Hana e il suo avvicinarsi e allontanarsi dalla mascolinità) si tende l'elastico attraverso il quale Laura Bispuri misura Vergine Giurata.
Purtroppo in questo movimento non è aiutata da una trama che, per scelta, non contiene quasi nessuno evento cioè rifiuta l'intreccio canonico e si affida ad una serie di quadretti, di scene di vita ordinaria che lentamente svelano Hana. Solo il dosaggio dei flashback riguardanti come sia diventata vergine giurata fornisce la benzina utile a dare un po' d'abbrivio alla storia.
Sembra quasi che il film si sia messo i bastoni tra le ruote, che non abbia voluto aiutare se stesso e le moltissime ottime idee messe in campo sporcandosi le mani con un intreccio.

Continua a leggere su BadTaste