[Berlinale 2015] Short skin, la recensione

Primo candidato a Miglior esordio italiano dell'anno Short skin prende una storia agra, la fa entrare in un genere dolce e con una forma austera. E funziona

Critico e giornalista cinematografico


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In Short skin c'è l'adesione perfetta all'universo complesso di personaggi adolescenti e o postadolescenti dei migliori film sceneggiati da Francesco Bruni (Ovosodo, Tutta la vita davanti, Scialla), unita ad un'austerità che non appartiene al sodale di Bruni, cioè Virzì, e che funziona in maniera dissonante ma piacevole con l'umorismo delicato e onnipresente. Sembra non ci sia nulla da ridere ma si ride sempre, delle disavventure dell'estate dei 17 anni di Edoardo. Insomma il primo film di Duccio Chiarini (proveniente dal laboratorio Biennale College) è una perla. Ha l'arroganza di affrontare un tema diametralmente opposto al tono della messa in scena e la maestria necessaria a manipolare bene la materia per farla entrare nello stampino prescelto.

Il protagonista di Short Skin ha un problema al pene: la pelle del prepuzio è troppo spessa e non si ritrae correttamente causandogli dolore anche solo all'atto di masturbarsi, figuriamoci a fare di più! Ci ha convissuto per tanti anni ma ora è venuto il dunque, ha 17 anni ed è l'estate in cui non si parla d'altro che di fare sesso per la prima volta. Il problema principale di tutto il film è questo pene: forse un'operazione (dice internet), forse solo facendo piano (è il consiglio di una prostituta esperta del settore), forse con una crema (propone un medico)... Intanto le occasioni si fanno sempre più vicine, una delle quali pare quella dei sogni. C'è quindi tutto l'immaginario dei summer movies adolescenziali americani (il mito della prima volta in una notte d'estate, la ragazza ideale...) calato in una realtà provinciale (Pisa) e con il più paradossale e assurdo dei problemi, capitato al più remissivo dei soggetti. Duccio Chiarini prende un film su un pisello e lo fa rientrare nella struttura del cinema dell'amore adolescenziale, il più dolce che ci sia, senza rompere nulla e anzi facendo sì che dal contrasto tra agro e dolce esca fuori un sapore unico.

Il suo film è come il protagonista, non parla molto, sembra avere un tono solo e non particolarmente vivace, non brilla per colori e brio ma lo stesso è calamitante e capace di divertire con trovate estemporanee. Riesce addirittura ad azzeccare almeno uno dei caratteri familiari di contorno (solitamente l'anello debole delle storie di ragazzi italiane), ovvero la sorella minore, in costante bisogno d'attenzione che parla come uno scaricatore e si massacra i capelli in tutti i modi.

Adorabile, sensibile, sofisticato (in certi punti l'astrazione della recitazione e i silenzi lo fanno sembrare il film commerciale che Roy Andersson non ha mai realizzato) e, stupore degli stupori, dotato del finale giusto, Short skin si candida subito a miglior esordio dell'anno.

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