[Berlinale 2015] Paradise in service, la recensione
Dolce ma mai smielato Paradise in service mira a ritrarre l'umanità con il filtro benevolente della nostalgia ma ha una schiena di ferro che commuove
I colori sono sgargianti, c'è quasi sempre il sole, le prostitute sono belle e pulite e i sentimenti sono d'oro, non è con la lente del realismo che Doze Niu Chen-Zer vuole realizzare il suo film ma sfruttando la dolcezza del ricordo per toccare il profondo dell'umanità.
La sfida di Doze Niu Chen-Zer è insomma flirtare con la melassa dei sentimenti banali senza mai perdere la lotta per rimanere nel terreno dell'onestà, usare il filtro della nostalgia per un'epoca passata, senza cadere nell'apologia e anzi mettere tutti questi strumenti nella definizione più alta possibile, quella dell'umanità. Gli spari nella notte sembrano fuochi d'artificio e le bombe sulla spiaggia sono il pollice che tiene schiacciati tutti i protagonisti che bevono aranciate e fanno sesso cercando di non crollare (anche se sistematicamente ogni tanto qualcuno dà di matto).
Ci vuole davvero un amore smisurato per i propri personaggi per fare un film simile, un racconto così equilibrato tra pietismo e rispetto, tra comprensione dei drammi più elementari (un contadino strappato dall'esercito alla sua famiglia che non vi fa ritorno da 20 anni ed è analfabeta) e delle psicologie più sofisticate.
Senza dubbio uno dei film più umani e a suo modo poetici dell'anno.