[Berlinale 2015] Knight of cups, la recensione
Logica prosecuzione dei due film precedenti Knight of cups allarga il discorso alla ricerca della spiritualità e all'insoddisfazione personale. Cinema unico
Lo stile di Malick è mutato molto nei 20 anni di iato creativo, quando è tornato con La sottile linea rossa non era più quello di I giorni del cielo, era più radicale nella maniera in cui racconta le sue storie. Già nei primi due film dal ritorno ha cominciato a raccontare sempre meno e con gli ultimi tre lungometraggi, realizzati a breve distanza gli uni dagli altri (considerati i suoi tempi), è arrivato a distruggere il racconto canonico.
Ci sono delle opposizioni logiche in queste "storie": la grazia e la bestialità di The tree of life; la passione e l'amore di To the wonder; il desiderio di essere qualcosa di diverso, di più e la difficoltà nel mettere in pratica tali propositi in Knight of cups. L'aspirazione dell'attore Christian Bale è quella di staccarsi dalla superficialità della quale si è ampiamente stufato e che vive come una cappa, ci prova con diverse storie d'amore, ma le diverse donne della sua vita sono tutti tentativi di migliorare che falliscono. La ragazza, Imogen Poots, l'infermiera adulta e più matura (intellettualmente) di lui, Cate Blanchett, la delicata donna di un altro, Natalie Portman, e poi alla fine una bionda eterea che non vediamo mai bene in volto.
Alla stessa maniera il repertorio visivo che Malick mette in piedi per questo film, sempre assieme al direttore della fotografia che lo segue da The new world - Il nuovo mondo, Emmanuel Lubetzki, prosegue il lavoro dei precedenti. Ad essere fuse sono da una parte la maniera incredibile in cui già in The tree of life la luce del sole sembrava la sola protagonista e il resto degli elementi inquadrati (esseri umani inclusi) puro arredamento per il suo esistere (c'è mai stato qualcuno così in grado di filmare la luce? C'è mai stato un simile Edward Hopper del cinema?), e dall'altra le romanticherie da spiaggia di To the wonder, il ruolo delle distese d'acqua virate sul blu assieme alle camminate dei protagonisti.
In più c'è Los Angeles, non più luoghi naturali ma la città, l'asfalto delle sue superstrade, il terrore dei terremoti, la lussuria delle feste e le tentazioni della metropoli che oscura quello che sarebbe stato un paesaggio naturale ("Che tutto sia possibile lo si capisce dalle palme" viene detto ad un certo punto).
È un cinema molto complesso e di un'ambizione sconfinata, quasi commovente nel suo voler realmente tentare di colmare lo spazio che esiste tra ogni singolo spettatore e la sua spiritualità, l'affermazione dell'evidente esistenza di qualcosa di più del terreno, a cui Malick crede o semplicemente si rifiuta di non credere.
Contrariamente a To the wonder, ma in maniera minore rispetto a The tree of life, stavolta dal grandissimo lavoro di montaggio (come sempre portato avanti dal regista e una squadra di montatori) emerge qualcosa di più che sole suggestioni. Il muto personaggio di Bale che guarda le donne della sua vita muoversi intorno a lui mentre cerca una vita migliore, magari con loro, è il condimento di una serie di paesaggi (in interno come in esterno) che centrano più volte la ricerca del trascendentale nella nostra realtà materiale. Se la spiritualità non alberga dentro di noi, di sicuro è fuori, nel resto del mondo che ci circonda. O per lo meno in quell'incredibile luce.