[Berlinale 2015] Chorus, la recensione
Impeccabile e preciso nello stile con cui affronta la storia di perdita e consolazione, Chorus manca di reale emotività e rimane sempre troppo distante
Come nell'ultimo film di Wim Wenders (Every thing will be fine) anche qui il tempo non cura ogni ferita, anzi le fa macerare, e il suo scorrere (negato, perchè saltiamo direttamente ad "anni dopo la scomparsa"), non ha cambiato nulla. Chorus cerca di mettere i personaggi a contatto con il dolore più puro, vuole guardare cosa succede alle persone e studiarle mentre si forzano ad affrontare quello che già sanno li massacrerà. In questo il bianco e nero aiuta molto, crea un mondo rarefatto e impossibile, un luogo di eterno struggimento che non somiglia al nostro, a quello reale, uno in cui le opposizioni logiche in cui i due vivono sono ancora più acuite.
Tutto perfetto e inattaccabile ma anche molto distante dalla ruvida sapidità del cinema della perdita.
François Delisle lavora soprattutto con gli interpreti (Sébastien Ricard e Fanny Mallette), li sceglie particolarmente affiatati e fa in modo che dal loro nuovo incontro possa scaturire qualcosa di particolare. La chimica tra i due, non affettiva ma di dolore, sembra la componente principale di un film che forse indugia troppo prima di arrivare al proprio punto forte, prima di intavolare il discorso più importante.