Bergman Island, la recensione | Cannes 74

Tutto ambientato sull'isola in cui Ingmar Bergman viveva e in cui ha girato molte scene dei suoi film, Bergman Island cerca senza successo di trovare quella magia

Critico e giornalista cinematografico


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Bergman Island, la recensione | Cannes 74

A partire dal viaggio di una coppia (lui cineasta, lei sceneggiatrice) sull’isola di Fårö in Svezia, dove Ingmar Bergman non solo aveva casa ma aveva girato molte scene dei suoi film, Mia Hansen-Love cerca di realizzare anche lei un film lì, uno che inevitabilmente parla di Bergman (i due fanno il tour turistico che fanno tutti e sono ospiti del festival bergmaniano che si svolge lì) e che in qualche maniera ha nella sua forma e nei suoi intenti il desiderio di abbeverarsi di quel posto e fare lì il proprio cinema ponendosi in una ideale continuità con Ingmar Bergman.

Nonostante Mia Hansen-Love abbia dimostrato in passato (specialmente con Eden e L’avenir) di possedere quel tipo di qualità introspettiva mai invadente, capace di emergere dal complesso delle scene invece di essere gridata in una in particolare, che rimanda al cinema fondato da Bergman, questo film è un fallimento. La storia che segue la coppia diventa poi la storia di un film che lei sta scrivendo, abbiamo così il doppio (il personaggio della storia echeggia questioni della sceneggiatrice), la risoluzioni di problemi privati tramite una proiezione di sé, e la fantasia come possibile luogo dove sciogliere tensioni intime. Tutti strumenti, temi e andamenti da cinema di Bergman che Mia Hansen-Love applica al suo modo di raccontare storie ma che in Bergman Island sembrano non quadrare mai.

È il rapporto con il paesaggio a non instaurarsi mai. Sull’isola di Fårö non si respira proprio l’aria giusta. Non si respira quella dei film di Bergman, non si respira quella dell’ammirazione dei personaggi e nemmeno quella della presenza in un luogo che possa modificare vite e pensieri. Non riesce mai davvero ad influire nonostante sulla carta il posto e la sua mitologia dovrebbero lasciare molto in sospeso. A mancare è la terribile e mortale affezione per i personaggi che non solo Mia Hansen-Love possiede di solito, ma che forse è uno dei punti di contatto tra lei e Bergman. Sentirsi condannati a partecipare dei terribili dilemmi di personaggi a cui ci si sente legati come da legami di parentela.

Invece né il regista di Tim Roth né la sceneggiatrice di Vicky Krieps riescono a rompere il muro del film. Semmai è Mia Wasikowska nella trama di finzione (il film nel film) ad avere il mordente maggiore, ma la sua parte non decolla mai davvero.

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