Benvenuti a Marwen, la recensione

Zemeckis torna a parlare di dipendenze e convalescenze da traumi, unendo reale e computer grafica, ma Benvenuti a Marwen non è Flight

Critico e giornalista cinematografico


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Il nuovo film di Robert Zemeckis va consumato back to back con Flight, ne è il gemello o quasi il remake alla lontana realizzato cambiando tutto tranne il cuore dell’idea: un uomo cerca di riprendersi da un evento traumatico e da tutte le proprie dipendenze raccattando i fili della sua esistenza. Questo è il dettaglio più interessante di un film che non lo è troppo: come Zemeckis racconti (ancora) di dipendenze, traumi e risalite da un inferno personale.

Stavolta l’evento traumatico non è un disastro aereo, ma un pestaggio che ha quasi ucciso il protagonista. Era un artista ma dopo il pestaggio non ha più la mano per poterlo fare e così è diventato fotografo di miniature. Ha costruito un villaggio della seconda guerra mondiale e un universo di finzione in cui i pupazzi hanno le fattezze sue e delle persone che gli sono intorno, e li fotografa come fossero veri. Perché in un certo senso nella sua testa lo sono.

Benvenuti a Marwen in questo senso è la storia di un narratore che vive con i suoi personaggi, che ha a che fare ogni giorno con le storie che racconta e che racconta a se stesso delle storie per uscire dalla propria crisi. Come Beowulf è un film sul raccontare storie che influenzano la realtà e (qui) la rielaborano. Tutta la vita di Mark Hogancamp, in allegoria, è dentro le storie di Marwen, il villaggio popolato dai suoi pupazzi, il più importante dei quali ha le sue fattezze.

Noi vediamo sia il mondo reale che quello dei pupazzi (in motion capture) vivere avventure parallele e simboliche, in cui gli assalitori sono i nazisti, le donne della sua vita lo salvano e lui, Mark, è un eroe duro come in un film con Lee Marvin.

Il mondo vero accanto a quello finto della computer grafica che Zemeckis ha sperimentato nella sua trilogia mo-cap (Polar Express, Beowulf e A Christmas Carol), attori veri e loro avatar affiancati, in una fusione impossibile che dice molto del rapporto tra pulsioni e traumi reali, e la loro sublimazione narrativa.

Teoricamente, insomma, Benvenuti a Marwen è impeccabile, purtroppo molto meno lo è nella pratica. Le avventure del mondo dei pupazzi non possono mai prendere davvero trazione, perché sappiamo essere proiezioni di finzione (però che bello come in quel mondo interno alla testa del protagonista Zemeckis indugi su una violenza esagerata), quelle del vero Mark nemmeno ci riescono, perché molto piccine e continuamente spezzate dai viaggi a Marwen. Di fatto delle due trame, che comunicano di continuo, nessuna trova una forma compiuta.

Soprattutto è tutta la grande parte metaforica dei tacchi a non funzionare. Senza spoilerare nulla, esiste un significato importante legato alle scarpe con il tacco che iniziamo a capire nella seconda parte del film e che dovrebbe viaggiare molto più alto del resto del film, dovrebbe parlarci di umanità, tolleranza, apertura mentale e anticonformismo. Ma è goffa, gridata e sinceramente anche abbastanza stonata. Proprio Zemeckis, che è riuscito sempre a tirare se stesso fuori dalla palude con le proprie forze, qui confeziona un film ovviamente fluido e impeccabile ma che non ha mai la capacità di trovare momenti, immagini, snodi narrativi o interpretazioni (non convince anche Steve Carrell, che pure si impegna) che alimentino il suo film come carbone gettato con forza ad ardere. E quando tenta di volare alto non ci riesce.

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