Bentornato Presidente, la recensione

Ha il dovere di replicare i meccanismi del primo film ma il cambio alla regia rivolta tutta la prospettiva e rende Bentornato Presidente un film ipercinetico

Critico e giornalista cinematografico


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Quello che davvero colpisce di Bentornato Presidente è la sua interpretazione di commedia.

Mentre il film precedente, diretto da Riccardo Milani, rispondeva allo stile classico italiano, cioè una direzione molto invisibile, fondata sulla recitazione e finalizzata alla chiarezza nella consegna della battuta o della gag, questo sequel non cerca a tutti i costi la risata ma preferisce costruire un racconto paradossale (e quindi divertente) tramite la messa in scena, lavorando su tutti gli aspetti, creando una collaborazione tra chi dirige e chi recita.

La trovata semplice (di nuovo) di Giuseppe Garibaldi, ex presidente della Repubblica, avulso dalla politica, non interessato alle questioni dello stato, che tuttavia diventa il nome perfetto per la presidenza del Consiglio nel momento in cui i due partiti che hanno vinto le elezioni non riescono ad accordarsi (lui però lo fa per amore, perché deve riconquistare una moglie tornata a lavorare per la presidenza della Repubblica), diventa un pretesto per lavorare di oggetti, costumi, luci e montaggio sulla caricatura della politica italiana. È nettamente la parte migliore del film, quella meno stantia e che gli dona l’unica vivacità che esibisce.

A differenza del film precedente stavolta ci sono riferimenti precisi a partiti e politici (i nomi sono tutti finti ma i tratti sono così chiari che è difficile sbagliarsi) e i registi Stasi e Fontana li usano come armi del proprio arsenale invece di consegnarli agli attori e lasciare che ci giochino loro. Il loro film precedente, Metti La Nonna In Freezer (sempre scritto da Fabio Bonifacci) aveva mostrato uno stile più moderno della media ma stavolta, alle prese con una commedia molto più tradizionale, hanno spinto con maggiore decisione sull’imposizione della propria personalità. Là dove la maggior parte dei registi italiani avrebbe realizzato un film classico per un script classico, Stasi e Fontana fanno l’esatto opposto, combattendo l’antico (e ormai marcio) adagio che vuole che la commedia vada diretta con minimalismo e semplicità per poter funzionare.

Ci sono 7 montaggi musicali in tutto il film (di cui ben 5 nei primi 30 minuti!), non sempre sono centrati ma non ne esistono due uguali, ognuno ha idee di messa in scena e montaggio originali (anche perché uno dei due registi è anche il montatore) e oltre a questo c’è un’idea particolare e unica di establishing shot (li usano per raccontare qualcosa e non per mostrare luoghi, come quando inquadrano un cartellone elettorale distrutto che mostra la sovrapposizione di più partiti). Sono tutti indizi del fatto che questi due registi hanno una gran voglia di farsi venire idee per risolvere le scene e di partecipare all’umorismo invece di riprenderlo e basta. Ci sono trovate comiche di montaggio come di illuminazione e non sempre gli attori sono il centro della scena. Non basta a fare di una sceneggiatura molto semplice un buon film, ma è anni luce avanti a quel che si rischiava con altri registi.

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