Benedetta, la recensione | Cannes 74

La conquista del piacere sessuale e del potere al tempo stesso, i problemi del desiderio carnale e il dominio della violenza, Benedetta è puro Verhoeven

Critico e giornalista cinematografico


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Benedetta, la recensione

“Il corpo è il tuo peggior nemico”.

Nemmeno 20 minuti dall’inizio di Benedetta e arriva questa frase, pronunciata da una monaca alla piccola protagonista appena arrivata al convento e intenta ad essere iniziata alla vita monacale, che potrebbe riassumere il contrasto cruciale di tutta la carriera di Verhoeven.

La famiglia facoltosa ha condotto la bambina al monastero e, come si usava, ha pagato profumatamente perché fosse presa. Lei è convinta di parlare con la Madonna, la badessa (Charlotte Rampling, finalmente in un ruolo in cui recitare davvero dopo anni di parti scialbe) sembra crederci ben poco, dimostrandosi piuttosto smaliziata nei confronti della spiritualità. 18 anni dopo si troverà a confronto con una ragazza le cui convinzioni di contatto con il divino sono ancora più radicate e la cui determinazione nell’affermarle è ancora più affilata. La passione per un’altra monaca non farà che acuire la necessità di prendere il potere per essere libera di fare quel che vuole.

La piccola Benedetta non solo scopre che “il corpo è il tuo peggior nemico” ma lo sente dire da una monaca con un dito di legno, che venera quella parte di sé più del resto del proprio corpo, una che sogna di essere tutta di legno e così da non sentire più i richiami della carne (un sogno, per l’appunto, che ricorda l’incubo di diventare di metallo di Robocop), martoriata com’è dai desideri e dal dolore che nel convento sono benedizioni, un modo di comunicare con Dio. Benedetta farà suoi tutti questi insegnamenti che sembrano delle pillole del cinema di Verhoeven e da grande sarà la perfetta eroina di un suo film, specie dopo aver scoperto il piacere sessuale contemporaneamente a quello per il potere.

In quel luogo in cui la carne è un problema che può essere tenuto a bada solo con il dolore, Benedetta scala la gerarchia infliggendosi dolore e lo fa per poter invece godere del proprio corpo (una delle trovate migliori è che quel legno che doveva sostituire la carne lei lo usa come strumento di piacere, una statuetta della madonna che, intagliata, diventa un dildo, immagine eccezionale). Verhoeven non rinuncia ovviamente alla sua usuale durezza ma questa storia che chiunque poteva filmare come un dramma di privazioni e spietata ricerca del dominio lui lo arricchisce di tantissime note di commedia, iniettando di continuo un’ironia ficcante. Come già visto in Elle, Verhoeven sa divertirsi anche con le storie drammatiche, ridendo del modo disincantato e pragmatico con cui la chiesa vedeva la spiritualità in quel tempo.

La storia in sé (fatti reali che Verhoeven romanza quel poco che basta a farli propri) è eccezionale, appassionante e piena di risvolti clamorosi. Tuttavia a consentire il salto in avanti è la maniera invisibile e precisa con cui il film mette in connessione potere, sesso, desiderio e immaginario con cui sono cresciuti i personaggi. Vedendo Benedetta si testimonia non soltanto il trionfo della propaganda politica sulla spiritualità (che è ciò che afferma anche la storia vera), ma soprattutto la maniera strana e sottile con cui la negazione del corpo e una filosofia di vita che promuove la sua rimozione, portano a modi strani e inconsueti per la carne di imporre comunque la propria dittatura sulla mente.

Ancora di più però questo film, che non sarà mai il capolavoro di Verhoeven ma è comunque un’opera magistrale, colpisce per il discorso bellissimo che fa sull’immaginario. Benedetta vive e cresce nella violenza, vede continuamente cicatrici e botte, conosce quasi solo la Bibbia e le immagini sacre, e così sogna di violenza, sogna Gesù come un eroe a cavallo che la salva. Ha fantasie romantiche da romanzetto rosa moderno con Dio al posto del bello di turno e alla fine dà forma al culto della propria personalità calcando l’unica mitologia che conosce, per l’appunto quella di Gesù.

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