Ben-Hur, la recensione
Impossibile riduzione al cinema coatto e di serie B di una trama nata per un'epica colossale di serie A, Ben-Hur versione Bekmambetov non ha senso
Bignami da due ore di un film che ne durava 4 (perché nonostante si tratti dell'adattamento del romanzo, il pensiero di tutti volerà inevitabilmente verso la più celebre incarnazione), questa versione moderna e molto coatta della storia di Giuda Ben-Hur non cambia troppo la trama ma ne sconvolge quello spirito di un romano di Gerusalemme, vissuto negli anni di Gesù Cristo, che fu tradito dall’amico fraterno, fatto schiavo, finito a remare su navi romane e poi diventato manovratore di quadrighe per un ultima grande gara a Roma, in cui riscattare se stesso e vendicare diverse morti nell’arena.
Il film che dovrebbe fare da testo originale, l’ispirazione da tradire o seguire, era un’epica paracristologica che strizzava l’occhio tanto alla mitologia biblica, tanto alle sottotrame omosessuali inserite dal non accreditato Gore Vidal. Un trionfo di nuances diretto da William Wyler, la cui sofisticazione non è stata presa nemmeno in considerazione al momento di pensare questo remake.
Ben-Hur versione Bekmambetov è la storia di una serie di scene d’azione che non risultano quasi mai in vere morti traumatiche, perché una scena epica in più, un ralenti d’amore fraterno è più importante. Ambisce al massimo come l’originale ma non è capace di costruire delle fondamenta di personaggi, ambientazione e solidità narrativa capace di sostenerla.
C’era da aspettarsi da Bekmambetov uno stile di messa in scena moderno in questa storia molto tradizionale, e non ha tradito le aspettative. L’assalto alla nave e il naufragio comprende alcune scene viste dal punto di vista del protagonista come accade nei videogiochi di guerra moderni (Battlefield, Call Of Duty...), la corsa finale sulle quadrighe comprende momenti senza nessun senso come Ben-Hur che guida senza una ruota, in equilibrio sull’unica che gli rimane come un circense.
Quisquilie di cui ridere. Ciò che invece infastidisce realmente è il tono generale del film, scaturito dalla maniera in cui ogni scena è risolta. In una parola è lo spirito che anima questo film, la riduzione al minimo comun denominatore di ogni interazione e l’annullamento di qualsiasi personalità in fase di scrittura, la ferma volontà di ricalcare dialoghi, risposte e reazioni sullo stereotipo dell’eroe cinematografico come lo intende il cinema di serie B, ma in un film che si propone (per blasone e ambizioni) di serie A. Insomma ciò che va bene per gli scalcinati ma vitali film di I Guardiani della Notte o anche per Il Cacciatore di Vampiri, decisamente stride quando la scena è ambientata nella Galilea e l’interlocutore è Gesù Cristo. Non è una questione di rispetto ma di genere cui questa trama appartiene, e che richiede un tono appropriato, perché mescolare registri, generi e toni, fare i drammi con ironia, i film di guerra come horror e via dicendo è impresa che richiede tutt’altra abilità. Tutt’altra.