Belfast, la recensione | Roma 16
Nel 1969 a Belfast un bambino cerca di vivere come un bambino mentre la guerra civile mette a repentaglio la sua famiglia
È probabile che il piccolo Buddy al centro di Belfast sia Kenneth Branagh stesso. Ne ha i colori (lo capiamo anche al di là del bianco e nero) e l’età. I suoi problemi da bambino sono il cuore di tutto (deve migliorare a scuola perché la disposizione dei banchi è data dai voti e vuole stare vicino alla ragazza che gli piace) mentre sullo sfondo il quartiere popolare di Belfast in cui vive è massacrato dagli scontri tra protestanti e cattolici. La sua famiglia è protestante ma vive senza problemi in un quartiere di cattolici fino a che non arriva la fazione protestante a portare la guerra civile e pretendere schieramenti. I genitori meditano di emigrare, i bambini cercano di fare i bambini.
Basterebbe l’uso maldestro dei droni in apertura (roba che neanche i documentari industriali!) o come monti malissimo i brani di Van Morrison (che peccato! Un musicista così poco usato dal cinema viene qui massacrato), fino alla rigida alternanza tra la storia d’amore del protagonista e i tumulti di Belfast, così meccanica da sembrare una bozza e non il montaggio definitivo, per condannare il film al dimenticatoio delle velleità. Ma Branagh fa di più e aggiunge una scena d’eroismo all’americana, implausibile nella sua dinamica di disarmo di una pistola e (di nuovo) in cerca dell’effetto-Roma con un abbraccio finale di tutta la famiglia a pericolo scampato.
Belfast è così disegnato a tavolino per piacere che ogni singolo membro della famiglia è espressione di una virtù cardinale (bambino tenero, madre premurosa e forte, padre pieno di senso del dovere, nonni amorevoli), tutti campioni del proprio ruolo, nessuno dotato di complessità, in un quartiere in cui tutti si vogliono bene. Certo c’è il filtro del ricordo ma Belfast non deforma (quasi) mai la messa in scena per dichiararlo e sembra invece pretendere di raccontare onestamente. Solo i momenti in cui la fotografia stringe gli interni per mostrare una casa irrealmente piccola in cui tutti sono nello sfondo delle inquadrature sembra accennare quest’idea, ma non è mai sfruttata, tranne che per l’immagine migliore del film: quando una bara è così grande in una stanza così piccola da raccontare nel silenzio l’ingombro di un lutto. Unico momento vero in un film che è un front runner per l’Oscar alla ruffianeria (alla consegna del quale mostreranno la scena in cui qualcuno mormora una frase intensa a mezza bocca tra sé sé guardando fuori dal finestrino).
È evidente che Branagh racconti un pezzo della sua vita e quindi aderisca ai fatti ma come può suonare onesto qualcosa che risponde così efficacemente a tutte le principali formule del cinema tenero? Come può suonare verosimile un film che si svolge attraverso fasi così artificiose? Come può sembrare sincera una storia scritta per somigliare più ad altri film che alla vita vera di qualcuno?