Before I Change My Mind, la recensione

In un film che sembra partire come il classico coming of age LGBTQI+ più di un'idea audace crea una riflessione sulla memoria e l'identità

Critico e giornalista cinematografico


Condividi

La recensione di Before I Change My Mind, il film presentato al festival di Locarno 75

Il video è memoria. Se per la generazione dei baby boomer e per alcune di quelle precedenti la memoria era il bianco e nero, per quella dei nati tra la fine degli anni ‘70 e gli anni ‘90 i ricordi sono in video, cioè il supporto tecnologico sul quale effettivamente sono impressi i momenti della loro infanzia e poi adolescenza. Immagini caratterizzate da bassa qualità, colori sparati e uno spazio grandissimo per il sentimento. Uno spazio grande almeno quanto il divario di dettagli, qualità ed elementi tra quelle immagini e la realtà. Buchi colmati dal sentimento.

Così in Before I Change My Mind, ambientato in Canada nel 1987, non solo i ricordi del protagonista sono in video ma anche quando ripensa a eventi avvenuti da poco, eventi che abbiamo visto nel film, li rivediamo come flash in video. Immagina e pensa la realtà già in immagini, o meglio come le immagini che associa ai suoi ricordi. Spesso terribili, rapidi, pochi secondi che aprono un mondo di dolore passato ma non elaborato. È un esempio di come Trevor Anderson sia abile a prendere il coming of age LGBTQI+ più tipico e infonderci dettagli ed elementi di audacia formale che lo spostano dal territorio convenzionale a quello più personale ed elevato.

Robin, il protagonista che non ha un sesso definito (anche se rifiuta un bacio di una ragazza e invece insegue un bullo a cui è interessato e che con un pizzico sul collo gli lascia un marchio uguale ad un succhiotto) è stato selezionato per essere quasi uguale al ragazzo a cui da subito si interessa e da cui è ricambiato in modi che non è facile capire (se per amicizia o per ricambio dell’interesse). Visivamente sono quasi la stessa persona ma hanno altri schemi mentali (fino ad un certo punto perché scopriamo che anche dentro Robin c’è un potenziale bullo), altre educazioni e altre inclinazioni. Vivranno una serie di intrecci in modi speculari, come fossero il bianco e il nero della medesima personalità, o più concretamente come se la società confinasse dentro schemi tanto chi ha un’identità sessuale non definita quanto chi invece pare averne una definitissima. Nel cercare un’anima gemella insomma è come se Robin trovasse se stesso.

Ma è soprattutto il finale abrupto a dare un colpo e un senso molto poco conciliato e molto ruggente a questo film che termina senza una vera chiusa non solo la storia di Robin ma anche quella dei molti genitori coinvolti, troncando il racconto nel momento in cui finisce ogni aspirazione, nel mezzo delle delusioni di tutti, mentre le costruzioni in cui sognare bruciano e love has torn them all apart.

Continua a leggere su BadTaste