Beetlejuice Beetlejuice, la recensione: Tim Burton è tornato giovane

Tim Burton attinge al suo mito originario e ritrova un ritmo e un umorismo perduti a cui Beetlejuice Beetlejuice aggiunge l'insofferenza per l'industria del cinema

Critico e giornalista cinematografico


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Che impressione vedere iniziare un film con una grande colonna sonora, dotata di una melodia orecchiabile, pensata e composta per essere ricordata! Non è lo score di Beetlejuice Beetlejuice (lo sappiamo, oggi le colonne sonore non vengono composte con questo intento) ma quello di Beetlejuice, composto nel 1988 da Danny Elfman, che accompagna un volo d’uccello sopra una cittadina, le sue strade e le sue casette tutte uguali, proprio come nel film originale (lì era un plastico, qui sono riprese vere che finiscono solo con l’ultima di un plastico), fino a che non arriviamo alla casa “diversa”, “gotica”, “da film di Tim Burton”.

L’impostazione è da cinema nostalgia, ma il resto del film no: il resto del film è la riproposizione viva e non animata di soli ricordi, di quella parte originaria del mito burtoniano, cioè le storie molto semplici e dotate di un sentimentalismo estremamente accessibile, in cui il rapporto tra bello e brutto, desiderabile e respingente, buono e cattivo, è ribaltato a favore degli outsider. All’epoca, quel fare un po’ kitsch era parte della committenza, cioè dell’impegno a fare un film per ragazzi e tutta la famiglia; oggi, invece, è diventato stile. Questo è un film per adulti che vogliono fare i ragazzi e che hanno capito (anche grazie a Beetlejuice) che le produzioni per ragazzi possono essere per tutti.

La storia rimette in circolo i vecchi personaggi con qualche aggiunta, come si conviene ai sequel, ma anche con una felicità creativa, una maestria narrativa e un profondo senso del divertimento che da tempo non si vedevano in Burton. Non ci sono dubbi che questo sia un film tecnicamente e formalmente molto migliore del suo originale, anche se non può vantare, come quello, la sorpresa di mostrare un universo estetico, filosofico e morale completamente nuovo e inedito. Beetlejuice Beetlejuice quell'universo semmai lo ripassa, lo ripropone e ci attinge (il personaggio di Monica Bellucci ha il character design di Sally di Nightmare Before Christmas ed è usata perfettamente come una strega gotica classica del cinema italiano). Che è una cosa ben diversa e fa la differenza tra un buon film divertente e qualcosa di memorabile.

Nonostante alcuni passaggi pedanti (specialmente quando i personaggi si spiegano a vicenda cosa sia successo negli ultimi 30 anni), finalmente Tim Burton, che dal suo mondo non si è mai davvero separato, lo ripropone sfacciatamente come fosse la prima volta, e unisce le due dimensioni visive della sua carriera: quella più espressionista della stop motion animata e quella live action degli esseri umani outsider. In più, c’è un ritmo caotico e trascinante (specialmente quando Michael Keaton è in scena), una furia di gag che solo tangenzialmente hanno come bersaglio le persone conformiste (il grande nemico di Tim Burton), ma soprattutto il mondo dell’industria dell’intrattenimento. Netflix, Disney, lo spettacolo in generale, la televisione, i produttori televisivi e anche, a un certo punto, un attore così serio e dedito da fare sempre i suoi stunt in prima persona (interpretato da Willem Dafoe) sono i veri ridicoli o i cattivi o almeno quelli che si meritano una stangata.

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