La recensione di Beau ha paura il nuovo film di Ari Aster con Joaquin Phoenix in uscita il 27 aprile
Tutto in
Beau ha paura si svolge su due piani. Anche la stessa storia è un viaggio del protagonista che da casa sua deve arrivare a casa della madre, in un altro stato, e passerà per famiglie che lo adottano e boschi in cui piccole comunità vivono facendo teatro, fino all’arrivo e ad una serie di diverse scoperte. Su un secondo piano di significato questo viaggio è anche un viaggio (nostro) nella testa di Beau e nelle sue mille fobie, uno che prende di volta in volta stile e toni di film diversi: incubo urbano, cinema animato in stile
Gondry e melò sentimentale, fino a deflagrare definitivamente nel weird cinema in chiusura (con un mostro psicanalitico su cui ognuno può avere la propria opinione ma che è obiettivamente abbastanza grossolana come allegoria). A ogni svolta da un tipo di film all’altro
Ari Aster assume uno stile di messa in scena differente e ciò che rimane invariabile è l’idea di farci vedere le cose che avvengono dal punto vista di Beau, confondendo quello che immagina con quello che accade. In questo senso
Beau ha paura è il
The Father della A24.
È abbastanza pesante seguire un film che per più di due ore è programmaticamente allampanato e allucinato, molto denso di easter egg, brand, scritte e immagini che richiedono più di una visione per essere messi in connessione e che prestano il fianco a quel tipo di spettatore che immagina i film come enigmi da risolvere, dotati di una e una sola spiegazione (quella voluta dall’autore) che va scovata e decifrata per poter dire di “aver capito il film”. Per tutti gli altri, quelli che a un film chiedono trasporto sentimentale o la possibilità di essere portati in una zona in cui mettere in crisi le proprie convinzioni, c’è poco.
Non ci sono dubbi che
Ari Aster sia un talento,
Beau ha paura ribadisce la sua eccezionale capacità di immaginare interni e momenti filmici di grande potere evocativo. Ma questo film è anche un monumento al talento male indirizzato e per nulla irregimentato, lasciato libero di sbrodolarsi. Anche quando centra una delle moltissime allegorie psicanalitiche, cioè il fatto che Beau guardi uno spettacolo e in esso trovi una rappresentazione della propria vita che sblocca delle consapevolezze, non riesce a coinvolgere come potrebbe perché Beau è un non-personaggio (sappiamo chi è che fa e che caratteristiche ha ma non partecipiamo mai dei suoi drammi). Anche quando sull’uscio di una grande casa si crea un momento di vero coinvolgimento emotivo e romantico nello stile di
Paul Thomas Anderson (cosa in sé molto complicata che costituisce un traguardo), questo poi non è sorretto da niente ed esiste come una clip fruibile a sé.
È l’estremizzazione di quel concetto di film su cui si regge il nuovo cinema indipendente americano di successo (capitanato dalla A24 ma che include anche Neon e altri marchi), capaci di fondere il malsano con l’umoristico, lo strano con il probante e tutto con una ricercata grande intensità tecnica. È un tipo di cinema che ha dato vita a film eccezionali, Beau ha paura però è il suo risvolto negativo, la rappresentazione di ciò che può andare storto. Una produzione che sta a Joaquin Phoenix come Mission: Impossible sta a Tom Cruise, cioè un veicolo per la costruzione di un tipo di stardom che ben si adatti a lui, uno che cerchi di fare in modo che l’intensità diventi il metro di giudizio per il lavoro di un attore e poi ci sì butti a capofitto, legittimando così tutta l’operazione.