Beata Ignoranza, la recensione
Creando la solita inesistente opposizione tra tecnologia e vita vera, Beata Ignoranza ripete gag senza inventiva, appoggiandosi ai suoi soli protagonisti
Gassman interpreta il malato di tecnologia e Giallini il passatista, nell’intreccio dovranno forzarsi a fare l’opposto. Neanche a dirlo il primo si troverà tutto sommato bene senza tecnologia, mentre il secondo ne diventerà dipendente da che la disprezzava. La figlia che hanno in comune (pare sia di uno dei due, poi ci dicono che dell’altro, poi invece no, che era del primo) essendo una giovane è l’unica ad avere un rapporto sano con internet, il digitale e i social network. Alla fine però, come il 99% del cinema italiano, anche Beata Ignoranza pende verso la restaurazione e il recupero del contatto umano rigettando la tecnologia.
Vittima della sua stessa pigrizia nel presentare la situazione, Beata Ignoranza è un film in cui trionfa l’etica dell’”ormai” (“Ormai si impara più giocando ad Assassin’s Creed che…”, è una battuta presa dal film), il principio del “al giorno d’oggi” (“Ma perché tu chatti??” è un’altra), una visione della rete e dei videogiochi degna degli anni ‘90. Sarebbe cosa buona e giusta sorvolare questa prospettiva sconfortante e magari guardare il film nel suo insieme, ma è difficile quando la classica storia sempliciotta e molto trita, in cui una figlia impone lo scambio di abitudini ai due padri per girare un documentario da vendere a dei vaghissimi “americani”, è ingarbugliata da personaggi che sfondano la quarta parete e parlano con il pubblico per dare un po’ di vitalità allo svolgimento. Espediente senza successo se poi si deve ricorrere al più classico dei finali in cui la ragazza ferita nei sentimenti scappa e non si trova più ma il padre vero sa dove andarla a trovare, in quel rifugio di campagna, sede di bei ricordi, dove trovare le ultime sicurezze.
È come se Beata Ignoranza volesse flirtare con la banalità, prendere in giro i pareri banali, mettere in mostra un mondo di ovvietà, però poi non riesce mai (con i dialoghi o con il senso del film) ad opporvi qualcos’altro, fosse anche solo una riflessione sul concetto di banalità. Per questo, alla fine, stremati dalla lunghezza percepita del film viene da pensare che semplicemente non ci sia altro se non quello, la banalità esposta ed elevata a ragionamento.