Beast, la recensione
Un film che funziona come macchina della tensione ed è dotato della dignità che Kormakur sa infondere, tramite la tecnica, ad ogni suo film
La recensione di Beast, in uscita al cinema il 22 settembre
Così adesso Idris Elbasi picchia con un leone incattivito (forse mutato dice qualcuno in un momento così folle che la stessa sceneggiatura fa finta di non averlo sentito e non menziona più la cosa), per un paio di giorni cerca di resistere da solo con le figlie nella savana mentre un leone che è una specie di Scar di Il Re Leone sotto anabolizzanti, li cerca perché è ossessionato dall’uccidere di tutti gli umani a tiro. Non che la razza non lo meriti, spiega il film con una buona sequenza iniziale in stile Lo squalo (ma no, non siamo a quel livello), in cui sono dei bracconieri spietati a fungere da innesco della furia, ma Elba è un medico di città un buon uomo che ha perso la moglie e a cui rimangono delle figlie da riconquistare. Averle portate in Africa dove un leone le caccia non è stata forse la maniera migliore ma, ammesso che sopravvivano, tutto questo potrebbe unirli.
La bestia è digitale, chiaramente, e la computer grafica funziona bene anche se non proprio sempre. In compenso i piani sequenza spesso lo tagliano fuori dall’inquadratura senza perdere in coerenza, e in altri casi invece funzionano proprio perché il leone manca, ne avvertiamo presenza ma non lo vediamo né sentiamo, come i protagonisti. Non tutto fila perfettamente ma come nei migliori film del suo genere anche in Beast non contano le molte imperfezioni e assurdità, conta l’impeto con cui tutto si riversa sullo spettatore, la capacità di ingaggiare con lui un gioco di tensione sul filo della sospensione dell’incredulità, lasciandogli sufficiente spazio per entrare nel film, esplorare le inquadrature terrorizzato che ci sia qualcuno o qualcosa e temere che non arrivi un finale tragico.