Barry (seconda stagione): la recensione

La recensione della seconda stagione di Barry, la serie HBO scritta e interpretata da Bill Hader

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Barry (seconda stagione): la recensione

Alec Berg e Bill Hader sono tornati a raccontare la storia di Barry Berkman, il killer insoddisfatto che utilizza la recitazione come forma di autoanalisi. Lo hanno fatto in una seconda stagione che appariva forse non necessaria all'indomani della conclusione fornita lo scorso anno alla serie HBO. La prima sorpresa allora, in una stagione che ne contiene molte, è che quel ritorno è ben giustificato alla luce di una seconda annata più liberatoria, ispirata e sperimentale rispetto alla prima. Come Atlanta o Fleabag, ormai pietre di paragone irrinunciabili quando si tratta di gemme televisive legate alle personalità forti che le curano e interpretano, anche Barry è un ottimo prodotto.

Siamo sempre a Los Angeles alcune settimane dopo la scomparsa della detective Moss. Barry continua a frequentare il corso di recitazione del signor Cousineau, ha un rapporto indefinito con Sally, cerca di smarcarsi dal suo mentore Fuches. Ma la vita da killer lo reclama, ci sono indagini in corso, e Barry dovrà ancora una volta calarsi nei panni violenti che desiderava dismettere per sempre.

La serie rimane quell'oscuro oggetto di scrittura, all'incrocio tra generi e possibilità. Non estremo come Atlanta di Donald Glover – anche qui c'è la regia di Hiro Murai – né ispiratissimo come Fleabag di Phoebe Waller-Bridge, ma molto valido. È una serie che fonde con eleganza humour nerissimo, violenza improvvisa, dramma umano e che riesce, complice la breve durata di otto puntate, a rimanere coerente con se stessa. La dimensione teatrale assume ancora un significato maggiore in questi episodi, al tempo stesso come forma di liberazione e maschera per chi sale sul palco. Per Barry, che ovviamente mantiene nascosti i propri trascorsi, si tratta di una recita all'interno di una recita, di una finzione di base per chi è chiamato a fingere nella vita di tutti i giorni.

Barry ha bisogno di tutto ciò, di credere a ruoli che lo possano smarcare dal proprio passato, sia di killer che di marine. Eppure non può rinunciare del tutto ai propri traumi, perché sono proprio quelli a dargli la spinta finale per essere la migliore versione di se stesso in scena. Lo avevamo già visto nella stagione precedente. Qui ci sono dei flashback ispiratissimi, anche per come ci vengono raccontati, sulle sue prime uccisioni nell'esercito. E c'è la soddisfazione personale, la consapevolezza del proprio talento, del suo essere forse destinato a incrociare le vite altrui solo in forma violenta. Barry rinnega tutto questo, lo soffoca sotto strati che riempie con altre considerazioni.

Ma, appunto, la vita da killer torna a bussare alla porta. L'episodio ronny/lily, in cui Barry deve entrare in una casa per uccidere un uomo, è un gioiello dichiarato, il piccolo esperimento al quale la serie non si vuole sottrarre. Senza entrare nel dettaglio, si tratta di un lunghissimo episodio di combattimento, intervallato da pause narrative che danno respiro alla situazione. Una puntata, diretta dallo stesso Bill Hader, che accumula soluzioni di regia in un ambiente che parla da sé, colpisce con una svolta narrativa inaspettata, e sostiene l'incredulità dello spettatore con una fortissima identità. Una parentesi delirante che sembra uscire da un universo alternativo rispetto alla normale linea temporale della serie, e che nella sua volontà di non spiegare tutto può essere paragonato alla puntata Pine Barrens dei Soprano.

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