Bardo, la recensione
La nostra recensione di Bardo, film diretto da Alejandro G. Iñárritu e presentato in concorso a Venezia 79. Con Daniel Giménez Cacho
La recensione di Bardo, in concorso al Festival di Venezia
Il risultato è caotico, esageratamente dispersivo: e se le grandi orchestrazioni in piano sequenza rendono bene l’idea che Iñárritu è fedele alle sue ultime regie (Birdman per il tono, Revenant per il desiderio di redenzione verso una intera popolazione), l’effetto è negativamente straniante, inconcludente.
Proprio questa rassegnazione, colorata con le pennellate della commedia, è ciò che distingue il protagonista, succube e inerme di fronte alle accuse di servilismo e ipocrisia che gli vengono fatte dai suoi compatrioti. Il fatto che l’onirismo in chiave politica impiantato da Iñárritu lungo tutto il film si appoggi su una base di conflitto tanto fragile (Silverio non si mette mai davvero in discussione, semplicemente va avanti a camminare) è ciò che purtroppo rende Bardo un film incapace di realizzare la sua volontà. Vuole essere graffiante, ammaliante, emozionante, mentre invece non fa che ridurre la problematicità dell’identità messicana - l’essere una terra colonizzata, di migranti e di persone povere schiacciate dai potenti - a un personalismo spicciolo e più che altro urlato e non problematizzato.
Iñárritu sembra quasi sbracciarsi nel tentativo - con un atto di puro gigantismo visivo - di farci vedere immagini straordinarie, enigmatiche, metaforiche. Come se la loro stessa presenza bastasse a renderle in sé sufficienti a esprimere una vicenda epica, una questione enorme.
Inquadrato con virtuosi piani sequenza in ambientazioni vaste e in situazioni felliniane, Silverio afferma che “il mio più grande fallimento è stato il successo”. Eppure, quando lo dice, non sembra mai crederci davvero: e nemmeno noi ci crediamo.
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