Bardo, la recensione

La nostra recensione di Bardo, film diretto da Alejandro G. Iñárritu e presentato in concorso a Venezia 79. Con Daniel Giménez Cacho

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La recensione di Bardo, in concorso al Festival di Venezia

Il Messico di Bardo non ha niente a che fare con quello di Amores Perros. A dividere i due film di Alejandro G. Iñárritu non sono però solo i ventidue anni e gli ingenti premi Oscar: Bardo è infatti, diversamente dal primo, un film sognante, irriverente in modo malinconico: un’autobiografia - per niente celata - di Iñárritu stesso, scritta con un desiderio estremo di onirismo e ironia (quello di Birdman) e con la voglia evidente di scusare sé stesso per avere abbandonato la sua patria natìa. Mescolando quindi ai fantasmi del colonialismo statunitense il viaggio mentale, delirante, del fittizio giornalista Silverio Gama (Daniel Giménez Cacho) vediamo scorrerci davanti con una pomposità esagerata la vita privata e professionale di questo mentre Iñárritu cerca di farla diventare a tutti i costi la metafora perfetta di un’intera situazione politica, storica, culturale.

Il risultato è caotico, esageratamente dispersivo: e se le grandi orchestrazioni in piano sequenza rendono bene l’idea che Iñárritu è fedele alle sue ultime regie (Birdman per il tono, Revenant per il desiderio di redenzione verso una intera popolazione), l’effetto è negativamente straniante, inconcludente. 

Ma chi è Silverio Gama? Giornalista e documentarista, Silverio è un uomo di mezza età stanco, che non ha più voglia di combattere e che si è addolcito nei confronti di chi egli stesso ha sempre criticato: gli americani. Con la scusa di una cerimonia di premiazione di un premio al giornalismo che gli sarà consegnato a Los Angeles (dove vive, e dove ha trasferito tutta la sua famiglia), Silverio affronta tutti i fantasmi del suo passato e del suo presente con remissività, limitandosi quasi solo ad osservarli.

Proprio questa rassegnazione, colorata con le pennellate della commedia, è ciò che distingue il protagonista, succube e inerme di fronte alle accuse di servilismo e ipocrisia che gli vengono fatte dai suoi compatrioti. Il fatto che l’onirismo in chiave politica impiantato da Iñárritu lungo tutto il film si appoggi su una base di conflitto tanto fragile (Silverio non si mette mai davvero in discussione, semplicemente va avanti a camminare) è ciò che purtroppo rende Bardo un film incapace di realizzare la sua volontà. Vuole essere graffiante, ammaliante, emozionante, mentre invece non fa che ridurre la problematicità dell’identità messicana - l’essere una terra colonizzata, di migranti e di persone povere schiacciate dai potenti - a un personalismo spicciolo e più che altro urlato e non problematizzato.

Iñárritu sembra quasi sbracciarsi nel tentativo - con un atto di puro gigantismo visivo - di farci vedere immagini straordinarie, enigmatiche, metaforiche. Come se la loro stessa presenza bastasse a renderle in sé sufficienti a esprimere una vicenda epica, una questione enorme.

Inquadrato con virtuosi piani sequenza in ambientazioni vaste e in situazioni felliniane, Silverio afferma che “il mio più grande fallimento è stato il successo”. Eppure, quando lo dice, non sembra mai crederci davvero: e nemmeno noi ci crediamo.

Siete d’accordo con la nostra recensione di Bardo? Scrivetelo nei commenti!

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