Bandit, la recensione

uando un crime è così privo di ritmo, insensatamente lungo e così idealmente vuoto, è difficile capire cosa farsene. L’idea, alla fine, era solo quella di fare un film tratto da una storia vera. Decisamente non abbastanza.

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La recensione di Bandit, disponibile su Prime Video dal 7 agosto

Il fatto che un film sia tratto da una vera storia criminale, con tanto di record di rapine, non lo rende per forza avvincente. E infatti è tutt’altro che appassionante Bandit, un action superficiale e sgonfio per la regia di Allan Ungar che riadatta la storia vera di un rapinatore che negli anni Ottanta ha svaligiato circa una trentina di banche tra USA e Canada.

Rispetto al genere criminale, il film tenta l’approccio ammiccante e ironico con lo spettatore che ha settato per primo Martin Scorsese (da Quei bravi ragazzi in poi) e che ha poi ripreso Adam McKay (La grande scommessa): il personaggio che si rivolge allo spettatore, gli inserti testuali a commentare dei freeze frame, l’ironia di personaggi criminali privi di scrupoli ma presentati come familiari. E, ovviamente, la storia vera di grandi frodi o grandi crimini. Bandit, e c’è da riconoscerglielo, prova tutti questi mezzi per distinguersi nel mucchio dei film medi da piattaforma e trovare qualcosa di originale; di fatto, però, non riesce mai a trovare il suo respiro, il suo senso, la sua identità. L’effetto è proprio quello di una copia mal scritta e poco fedele di uno dei tanti film che rievoca.

Siamo nel periodo del reaganismo, della folle corsa al capitale e del vampirismo bancario verso il privato cittadino. La storia vera in questione è quella di Vincent (Josh Duhamel), che all’inizio del film vediamo come rapinatore esperto mentre svuota i caveau di banche americane: come un Robin Hood individualista, ruba solo alle banche perché sono cattive, anche se non consegna niente ai poveri. Dopo essere stato preso e messo in prigione, Vincent riesce a scappare e si reca in Canada dove, sotto il nuovo nome di Robert, ricomincia la stessa attività ma sotto l’ala protettrice di un criminale ancora più organizzato, Tommy (un Mel Gibson fotocopia di sé stesso). La sua vita viene però messa in discussione da quando si innamora di una donna e comincia a costruire una vita con lei. Peccato che, nella pratica, non cambi proprio niente.

Il personaggio di Robert avrebbe tutti i motivi del mondo per essere interessante, certamente almeno dal punto di vista psicologico. Cosa lo spinge a fare ciò? Perché continua a farlo? Perchè dovrebbe smettere? Perché non sta smettendo? Eppure è proprio il personaggio protagonista il problema forte di Bandit. Robert viene infatti dipinto come un simpaticone, un uomo affascinante, un furbo. La sua motivazione dovrebbe essere il cuore del film, ma di fatto non lo è. L’interpretazione di Josh Duhamel sembra in tutto sbagliata e, complice una scrittura molto banale, il criminale che dovremmo vedere nelle sue sfaccettature ha la consistenza di un pupazzo vuoto e privo di caratteristiche ma che vuole piacere tantissimo allo spettatore. Davvero fastidioso.

Per il resto, dato questo tipo di personaggio fallimentare c’è poco in Bandit che possa salvare l’interesse. Le scene di rapine sono anche ben girate, e in generale la regia fa tutto il lavoro di coinvolgimento che la storia non fa. Ma quando un crime è così privo di ritmo, insensatamente lungo e così idealmente vuoto, è difficile capire cosa farsene. L’idea, alla fine, era solo quella di fare un film tratto da una storia vera. Decisamente non abbastanza.

Siete d’accordo con la nostra recensione di Bandit? Scrivetelo nei commenti!

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