BAC Nord, la recensione

Teso e duro quando deve esserlo BAC Nord fa una grande fatica a gestire la sua terza parte, in cui tirare le fila degli ottimi eventi visti fino a quel momento

Critico e giornalista cinematografico


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BAC Nord, la recensione

Audrey Diwan, sceneggiatrice e regista di L'événement (Leone d’Oro a Venezia), quando non realizza film molto personali su questioni femminili ha un secondo lavoro: scrivere film molto maschili assieme al marito Cedric Jimenez, che poi questi dirige. BAC Nord è l’esempio perfetto, un canonico poliziesco francese in cui la polizia è protagonista.
Tratto da una storia reale (in cui molto è stato cambiato, lo spiega un cartello iniziale) è un modo per mettere in moto una trama di spari, fughe e tensione verso il raggiungimento del risultato in un mondo in cui la malavita è più ampia dei soli criminali nelle strade e in cui non esiste più nessun codice condiviso tra le forze dell’ordine, quella legge tribale del mondo degli uomini che supera schieramenti e contrapposizioni per unire tutti su certi principi di dignità, onore e correttezza. Il polar tradizionale proprio su questo codice si basava, sull’idea che criminali e poliziotti non sono contrapposti come la legge fa pensare nel momento in cui si parla di umanità. BAC Nord fa parte dei film che dicono che non è più così.

Tre poliziotti dell’unità antidroga vivono di piccoli arresti a piccoli spacciatori, della consueta dieta di insulti per strada, minacce, informatori avvicinati, corse per prenderli e pesci piccoli brutalizzati per avere informazioni o partite di droga. Hanno una vita privata mostrata all’americana (pasti tutti insieme, belle mogli dal carattere forte con figli in arrivo) e un rapporto burrascoso ma onesto con il capo che li stima anche se è frustrato dai loro metodi. Quando finalmente saranno chiamati ad un’operazione importante, in grande stile, con tantissimi arresti e chili di droga sequestrata, le conseguenze per loro saranno imprevedibili.

Jimenez ha una mano saldissima e sa fare l’azione. Questo è il dettaglio più importante, perché BAC Nord è un film di fatica, di corse, di resistenza e ha nella grande operazione al centro il suo cuore. Tanto più la guerra urbana contro il clan di spacciatori è estrema, pericolosa e mortale, tanto più quello che viene dopo sarà significativo. E quella parte funziona moltissimo. A mancare è il ritmo in tutto il resto della ricostruzione. BAC Nord sa molto bene come lavorare sulla furia e la tensione verso il raggiungimento del risultato, sulla rabbia dei poliziotti, la loro frustrazione e il desiderio, anche egoistico ed esagerato, di giungere agli arresti. È invece imbarazzatissimo quando deve avere a che fare con i loro rodimenti interiori, quando deve approcciarsi a ciò che viene dopo, l’elaborazione delle fine di un mondo.

Dei tre attori solo Gilles Lellouche sembra davvero capace di tenere testa al film che lo contiene, solo lui sembra lavorare sulla sua maschera invece di appoggiarcisi e basta. È il personaggio in un certo senso più sofferente ma anche l’unico che riesce ad incarnare il senso ultimo di questa storia di tensione, risultato e conseguenze in un mondo in cui tutti i valori in cui i tre credono non esistono più. L’unico infine che incarni qualcuno la cui vita è piena di vuoti che il lavoro dovrebbe colmare, cosa che in sé lo rende dinamico, pericoloso, tutto d’un pezzo. Gli altri sono tappezzeria.

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