Babylon, la recensione
Lungo, sbagliato ma così vitale che non si può che desiderare che film così vengano sempre fatti, Babylon è una visione senza compromessi
La recensione di Babylon, il film di Damien Chazelle al cinema dal 19 gennaio
È un’ambizione superiore rispetto a quella degli altri film sul cinema, una che mira a mettere più sfacciatamente in primo piano il contesto e che finisce per perdere di vista i personaggi più volte lungo una durata ingiustificabile, ma nel caos ironico e grottesco che Chazelle crea e alimenta di continuo per tre ore in più di un momento si affaccia quel sublime che con così tanta insistenza cerca. C’è una visione così chiara e un desiderio così forte di rappresentare lo sconvolgimento dell’esperienza della fruizione artistica trasferendolo all’esperienza della sua creazione (come se per spiegare cosa si provi nel guardare un film occorra che quelle sensazioni stiano già nella sua creazione), che è davvero difficile rimanere indifferenti. Anche perché questo desiderio è messo in immagini con una tale minuzia nella ricostruzione (Babylon naviga la Hollywood della fine degli anni ‘20, mostrando tutto del suo stile produttivo per quanto non voglia mai essere realistico, semmai grottesco) e nella definizione di quel che il cinema è e fa, che quando in un set così caotico da essere mortale tutto sembra perduto prima che all’ultimo secondo sia recuperato, il senso di quegli eccessi si palesa in una sola inquadratura resa così perfetta dalla dedizione e dal caso perfetta da giustificare un’intera giornata di follia galoppante e urla. È il senso del film riassunto in un attimo solo: non c’è limite allo sforzo e al dolore se il risultato può essere anche solo un’inquadratura come quella. È stato già detto, ma nessuno l'ha mai detto così.
In mezzo a questo caos (spesso animandolo) si muovono 4 personaggi, un’attrice che desidera emergere ed è pronta ad aderire allo stile di vita sconsiderato del mondo del cinema, un tuttofare che vuole diventare produttore, un musicista da feste che viene notato e diventa star di film per afroamericani e infine un divo che non resiste all’impatto del sonoro. Potrebbe essere C’era una volta ad Hollywood o Cantando sotto la pioggia (più volte citato) e invece è uno spettacolo di eccessi e repulsione che inizia con una doccia di escrementi di elefante appena prodotti, ripresa così da vicino e in modi così insistiti da costituire un annuncio. È quello che vedremo per il resto del film, urina, sangue, escrementi, vomito e sangue a bizzeffe, ripresi per enfatizzarne la natura repellente, perché è esattamente quella materia così bassa e viscerale che, irregimentata da alcune volontà di ferro e una dedizione senza limiti, regge la produzione artistica migliore di sempre.