Baby (seconda stagione): la recensione

Sempre più vicino al teen drama, alla seconda stagione Baby conferma il proprio glamour cortese e mai scabroso, sospeso e leggero

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Baby (seconda stagione): la recensione

Sempre meno legato ai fatti di cronaca, sempre più affine come forma e contenuti al teen drama, Baby torna con una seconda stagione su Netflix. Il filone legato alla prostituzione minorile non si esaurisce, ma le deviazioni criminali della prima annata lasciano il posto nell'intreccio a spunti adolescenziali, tormenti amorosi, sofferenze più intime. Il paradosso della serie è quello di un glamour cortese, mai scabroso, sospeso come certe musiche che fanno capolino a più riprese sovrastando le immagini. Lo show ha la sfrontatezza di un sedicenne che sente di avere già troppa vita alle spalle e cammina come se portasse il peso del mondo addosso.

Un disagio che, va detto, alcuni protagonisti fanno anche bene ad avere. Chiara e Ludovica (Benedetta Porcaroli e Alice Pagani) continuano, utilizzando un'espressione banale, a giocare col fuoco. Famiglie assenti, genitori mediocri, un'ansia di autodeterminarsi e di vivere secondo canali pericolosi, che le conducono a gestire ormai in autonomia i loro incontri con gli adulti. Attorno a loro si agitano le vite di altri personaggi altrettanto problematici. Damiano (Riccardo Mandolini) è confuso dall'atteggiamento ambivalente di Chiara; Fabio (Brando Pacitto) cerca di vivere con stabilità la propria omosessualità; Niccolò (Lorenzo Zurzolo) continua la relazione con la professoressa Petrelli (Claudia Pandolfi).

Il disagio sociale di Baby assume tuttavia contorni elettrizzanti e inebrianti. Non parla il linguaggio della problematizzazione, non emette giudizi che non siano quelli puramente legati alla mediocrità dei rapporti umani. Da un certo punto di vista, si sforza molto per elevarsi al di sopra del territorio di riferimento e parlare un linguaggio universalmente riconoscibile dai giovani. Nel fare questo rinuncia a sottigliezza e conflitti più sfumati. L'intreccio e i dialoghi procedono per grandi affermazioni nette, gesti eclatanti, scatti di rabbia fulminei e altrettanto veloci riavvicinamenti. I personaggi con i loro conflitti – si spera con qualche forma di maturazione – sono trascinati dalla corrente, ma di questo non si curano troppo.

Sono giovani, bellissimi, immortali e incontrollabili. La serie li asseconda e presenta un microuniverso a loro immagine. Un mondo fatto di feste (che però sempre "fanno schifo"), adulti senz'anima divisi tra genitori incoscienti e stalker viscidoni, e in cui un "politico" non meglio identificato è determinante per la storia. Qui la leggerezza non esiste, l'intreccio è gravato da una pesantezza di fondo troppo vaga, che non aspira e non riesce a raggiungere la ruvida ironia di Euphoria. E anche quando corteggia temi importanti come l'omofobia o il revenge porn, manca di quello scatto necessario a dire qualcosa.

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