Aviator

Howard Hughes è stato un aviatore-produttore folle e geniale. Il film dedicato alla sua vita, sia nella storia che nella qualità cinematografica, conserva soltanto la prima caratteristica...

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Aviator non è un film orrendo. Non sarebbe neanche preciso definirlo brutto, anche se sicuramente non raggiunge la sufficienza. In realtà , quello che si nota (come in molti degli ultimi film di Scorsese) è la sua inutilità . Si ha l’impressione, infatti, che spendere 110 milioni di dollari senza avere un’idea chiara di quello che si vuole realizzare non sia proprio il massimo della vita.
D’altronde il regista italoamericano ha la fortuna di avere Leonardo Di Caprio che gli salva la poltrona, considerando che gli incassi delle altre sue pellicole non sono mai andati bene come le ultime due che ha realizzato con l’interprete di Titanic.

L’idea centrale di questo film è la figura di Howard Hughes come di un innovatore e di un uomo che combatte il sistema, che si tratti di una commissione di censura cinematografica o di un Congresso corrotto. D’altronde, secondo quello che dice lo stesso Scorsese in conferenza stampa, come il personaggio di Quei bravi ragazzi, anche Hughes deve pagare il prezzo della sua ambizione.
Insomma, dovrebbe trattarsi di una figura affascinante. In effetti, lo è. Ma come simpatizzare per un uomo che non si preoccupa dei rischi per i piloti del suo film, compie test spericolati che mettono a repentaglio la vita delle persone, ha rapporti con quindicenni, paga bustarelle a tutto spiano, considera le donne alla pari (o forse inferiori) ai propri aerei e fa controllare amici, nemici e amanti. Non è proprio la descrizione di un uomo fantastico, ma come spesso succede nei suoi film Scorsese sembra affascinato da personaggi discutibili. Fin quando si tratta di mafiosi, la violenza delle loro azioni non permette ambiguità ; ma in questo caso sembra proprio difficile capire le capacità di innovatore (che invece ci sono) di Hughes da una tale descrizione.

Il fatto è che la narrazione non riesce a concentrarsi sulle cose importanti. Si passa nel giro di un’ora di film dal 1927 (data delle riprese di Angeli dell’inferno) al 1943 (uscita de Il mio corpo ti scalderà ), ma sullo schermo Leonardo Di Caprio rimane uguale. Il rapporto con Katharine Hepburn è poco chiaro. Nel film sembra che duri più di dieci anni, ma in realtà i due rimasero insieme dal 1935 al 1938. Al loro primo incontro (che si svolge nel 1935), lei cita Scarface, una pellicola prodotta da lui tre anni prima, come se lo avesse visto da poco. E all’improvviso, senza nessuna spiegazione, lei che era considerata veleno per il botteghino diventa un’attrice di successo (quando? Come? Perché?).

In generale, i rapporti personali nella pellicola sono molto superficiali. E’ facile capire che l’abbondanza di carne al fuoco non abbia giovato molto a questo aspetto. Amanti come la giovanissima Faith Domergue appaiono e scompaiono all’improvviso, il rapporto con la Hepburn è lasciato scivolare via, quello con Ava Gardner è stranissimo. E non va meglio con gli uomini. Noah Dietrich, gestore della sua fortuna, dovrebbe essere la persona che cura i suoi interessi, ma a detta di tutti anche uno dei suoi maggiori confidenti. Peccato che nel film non si capisca proprio. E si rimane molto dubbiosi su scene come quella di apertura con la madre, la cui utilità è francamente poco chiara.
C’è anche materiale molto carino (l’incontro iniziale con i magnati di Hollywood, l’audizione alla commissione censura, una scena cronenberghiana nel momento di suo maggiore isolamento) ma quasi sempre le buone idee vengono sprecate perché tirate troppo per le lunghe.

Si è anche molto parlato delle scene aeree per mostrare la lavorazione di Angeli dell’inferno. In effetti, sono decisamente spettacolari, ma anche assolutamente inverosimili, a causa di un uso eccessivo e sconsiderato della computer grafica. Peraltro, quando ci si complimenta con il regista di Taxi Driver per delle ragioni che potrebbero essere valide per un Michael Bay qualunque, c’è da preoccuparsi...
Così come l’idea di citare l’uso del technicolor a due e tre colori degli anni trenta-quaranta, che sulla carta poteva sembrare interessante, produce degli effetti bizzarri, con scene in cui si cambia totalmente fotografia e senza nessuna ragione valida (mi riferisco alla partita di golf).

E francamente, si rimane delusi anche dagli attori. Di Caprio è bravino, ma non eccezionale e rimane il dubbio che sia troppo giovane (o appaia tale) per il ruolo. La Blanchett è insopportabile, a causa del suo accento troppo pronunciato, delle sue mossette e di tanti altri vezzi attoriali che magari saranno anche stati caratteristici della Hepburn, ma che alla fine risultano insopportabili. Non è male invece la Beckinsale, ma lei sembra spesso dimenticata, così come tanti altri bravi attori (John C. Reilly, Alan Alda, Alec Baldwin, Willem Dafoe) che compaiono (magari per pochi minuti) nel corso della pellicola.

E l’ultima parte del film è francamente risibile. Si può anche scegliere di mostrare la follia misantropica di Hughes nei minimi dettagli (che peraltro peggiorerà alla fine della sua vita, tanto che qualcuno sostiene che quello che era uno degli uomini più ricchi del mondo sia morto di denutrizione), ma il pericolo evidente è quello di trascurare (cosa che a mio avviso avviene) tutta la sua portata d’innovatore nei campi dell’aviazione e del cinema.
E poi, non è ben chiaro francamente come riesca a superare la “battaglia” finale, soprattutto riprendendosi tanto in fretta dopo un periodo così traumatico.

Insomma, Aviator è un polpettone confuso e abbastanza impersonale. Comunque sia, non è assolutamente escluso che vinca l’Oscar. Ma vorrebbe dire che, oltre a quello a Sidney Lumet, ci sarebbe un altro premio alla carriera assegnato, perché questo film non merita proprio nulla.

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