Avengers: Endgame, la recensione
Il finale del grande ciclo Marvel iniziato nel 2008 carica Avengers: Endgame di una sorprendente vivacità, negando sia l'eccesso di azione che la cupezza...
È l’apice di Avengers: Endgame film che come previsto si nutre dei film precedenti dell’universo Marvel, non solo per tirarne le fila ma anche per usare quelle storie per raccontare la propria trama.
Sorprende innanzitutto che la saga del MCU scelga di non seguire la struttura fondata da Il Signore Degli Anelli (il padre del concetto di franchise moderno), canonizzata da Harry Potter e seguita da tutte le piccole grandi saghe americane: nonostante gli eventi del film precedente, avvicinandosi al suo finale il tono non si fa più dark, più scuro, più disperato, anzi! Endgame contraddice la regola per la quale un franchise deve diventare adulto nel suo finale facendosi più cupo e alzando la posta dei propri temi, mostrandosi vivace, una commedia non priva di macchiette, in cui per tutta la prima ora non c’è azione ma tantissimo dialogo, pura scrittura. È una grande scelta che spiazza e dà al film non il passo della chiusura forsennata ma quello della grande epopea. Dopo la prima ora inizia un po’ di azione, più che altro di suspense, e solo nell’ultimo terzo si marcerà ai ritmi che ci si può aspettare con le proporzioni giganti attese (e finalmente con un ruolo protagonista dello score).
Di nuovo: non è un peso, anzi.
Endgame ha il coraggio di esplorare, anche se limitarsi a concludere in continuità con il resto sarebbe stato più che sufficiente.
Infinity War era l’apoteosi del parlarsi tramite l’attrezzatura, aiutarsi, modificarla e passarsela per dimostrare stima, rispetto e affezione, qui il momento più sentimentale in assoluto (prima del gran finale) sarà affidato a... un dispositivo di uso comune. Nel mondo degli eroi continuano ad essere gli strumenti, la tecnologia o i gadget i veri conduttori dell’emotività, le parole sono solo dei simulacri (che è poi la dimostrazione che al netto di tutto rimangono racconti che seguono le regole del cinema maschile).
Nonostante Endgame, in quanto conclusione, sia fisiologicamente più emozionante di Infinity War ma decisamente meno appassionante (perché la costruzione di una storia è sempre più accattivante della sua risoluzione, la quale inevitabilmente marcia sui sentimenti più scontati), conferma la perfezione formale e tutta la maestria artigianale costruita in questi anni dalla Marvel. Il bilanciamento dei toni, la fusione tra falso e vero, i ringiovanimenti digitali, gli scenari galattici e quelli molto intimi, la radice “americana” e le ambizioni planetarie, c’è tutto. Cinema di produzione pazzesco che lavora benissimo con gli attori e come Ant-Man passa bene dal macro al micro (ma ci sono arrivati, nei primi film non gli riusciva perfettamente).
Basta vedere Thor, personaggio diventato con gli anni il più ironico per assecondare la scoperta della vena di commedia del suo interprete e qui apertamente comico, addirittura slapstick. Ora è innegabile: la Marvel al cinema non ha cambiato i suoi personaggi solo in funzione delle trame ma in base alle caratteristiche di chi li ha interpretati (e non viceversa, scegliendo chi poteva somigliargli). A partire da Iron Man per finire con il cambio di Thor in corsa, è stato un modo di mettere al centro gli attori, uno che qui paga più che mai e che non a caso è celebrato nei titoli di coda con le firme degli attori (!). Con Robert Downey Jr. in testa, il più in palla, il più impegnato, il più caricato del peso drammaturgico già nella prima scena, tutto il cast lavora sulla recitazione meglio e con più spazio che in passato. L’aumento di dialogo e diminuzione dell’azione glielo consente, ma è proprio il film che glielo chiede.
In una saga in cui l’azione sembra non fermarsi mai ed è stata quasi sempre appassionante, il finale si ferma molto e spesso, trovando l’ultima cosa che mancava al MCU: la capacità di scegliere di non ricorrere all’azione.