Avatar: la via dell'acqua, la recensione

Tarato sugli stessi meccanismi del primo film, solo raddoppiato in grandezza e personaggi, Avatar 2 è puro Cameron nel bene e nel male

Critico e giornalista cinematografico


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La recensione di Avatar 2: La via dell'acqua, al cinema dal 14 dicembre

Avatar è stato il primo film di una nuova tipologia, dotato di nuove tecnologie che tutti avrebbero usato, di un diverso sfruttamento dei “mondi altri” e pensato per conquistare il pianeta, non solo la sua parte occidentale ma tutto, puntando su valori universali e minimi comun denominatori. Sono passati 13 anni e ora Avatar: La via dell’acqua (che chiameremo Avatar 2), immaginato esattamente come il primo, con la stessa scansione, il medesimo villain ma potenziato e più personaggi da gestire (non è l’avventura di un singolo ma di una famiglia allargata), sembra l’ultimo film di quest’era. La Cina ha chiuso le porte a Hollywood che oggi non pensa più i film per il mercato asiatico. Rivedere ancora una volta quel tipo di legami famigliari fondati sulla dicotomia tra rispetto e sfrontatezza, quel tipo di animismo e i personaggi doppi che stanno da entrambi i lati dello schieramento, fa pensare a cosa è stato il cinema degli anni ‘10 e cosa non è più.

Avatar 2 è però anche un film di James Cameron, immediatamente riconoscibile, cinema classico distillato e solo parzialmente infarcito di dettagli moderni. La dinamica narrativa più semplice (quella di Terminator, che vede dei buoni inseguiti da un cattivo che vuole fargli del male, indecisi se scappare o affrontarlo), in uno scenario da The Abyss e con un finale da Titanic, in cui i nodi tra personaggi vengono al pettine durante una catastrofe. Che poi ci sia una giovane generazione più in contatto con l’ambiente pure tra i Na’Vi e che le tre ore e passa di film siano organizzate come un’intera stagione di una serie tv (con più archi narrativi sovrapposti mentre una trama più grande è portata avanti) tutta compressa, è solo fumo negli occhi. Modernismi in una storia di frontiera, esigenza di violenza per non soccombere, uomini che prospettano showdown finali, donne che curano e giovani che non ci stanno alle regole dei genitori.

Dotato esattamente degli stessi pregi e degli stessi difetti del primo film, è chiaro che ad Avatar 2interessi più che altro il grande segmento centrale in cui ammirare il nuovo mondo acquatico, le creature e le continue inquadrature da documentario del National Geographic di un posto che non esiste, creato per essere ammirato. È mostruoso il lavoro che viene fatto ad esempio sulla simulazione della luce del giorno, sia nei momenti assolati che nelle giornate uggiose, come è di nuovo eccezionale l’uso della profondità, specialmente quando guardiamo attraverso superfici trasparenti. Inoltre la scelta di aumentare i frame al secondo solo nelle scene con molti elementi in movimento infastidisce solo inizialmente, appagando poi nel grande spettacolo finale. Cameron ha davvero rilanciato sul medesimo sentiero di Avatar, creando un nuovo standard tecnologico su quella base. Che tutta questa meraviglia da osservare sia animata da una storia elementare va probabilmente considerato come il prezzo da pagare.

Certo il primo film riusciva lo stesso a contenere un’idea potentissima perché a tutto ciò associava anche un discorso sul cinema, sul guardare con occhi nuovi tramite il performance capture. I personaggi davano i loro movimenti agli avatar Na’Vi come gli attori lo facevano alle controparti digitali e tutti si stupivano di questo mondo da ammirare, i personaggi come gli spettatori in sala ammaliati dal 3D e dal fotorealismo di ambienti digitali. Le scene in cui Jake Sully provava il suo nuovo corpo sembravano parlare non tanto di un marine che usa di nuovo le gambe ma di un regista e della sua eccitazione per ciò che si può fare con queste nuove tecnologie.Avatar 2 invece non si apre con un occhio spalancato (ma si chiude con lo stesso sguardo in camera con il quale Jennifer Lawrence chiudeva uno dei capitoli di Hunger Games) e preferisce partire sottotono con vedute di Pandora. Insomma non è più il racconto dell’esigenza di rivedere la maniera in cui esperiamo il mondo tramite la tecnologia, ma di rivedere il nostro rapporto con l’ambiente. La stessa cosa di cui parlano molti altri film, senza una gran personalità.

Cameron è rimasto se stesso (del resto se fai un film ogni dieci anni…), strizza un po’ l’occhio al western e alla Hollywood tradizionale con il mito della frontiera da domare, nasconde dietro gli avatar le sue attrici (Sigourney Weaver ma anche Kate Winslet) così tanto che il loro contributo è minuscolo, ma se in qualcosa davvero si vede la sua mano è nel montaggio vecchia scuola, così rapido, che entra sempre dritto nel vivo della scena senza preamboli. Un montaggio che non somiglia a un vestito largo e comodo ma ad uno stretto e asciutto, che consente di tenere dentro solo l’essenziale. Il suo stile narrativo è così fluido che anche le relazioni basilari, le dinamiche terra terra e lo svolgimento accademico della sceneggiatura (per non parlare dei dialoghi!) funzionano fino a creare una tale omogeneità che rende godibile anche questo racconto ai minimi termini, che riesce a rispolverare e dare un senso a dinamiche eterne, conflitti primitivi e azioni e reazioni che tutto il pubblico può anticipare.

Questa, alla fine, è la vera forza della visione di James Cameron, riuscire a trovare l'angolatura per rendere coinvolgente la storia più vecchia del mondo.

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