Autumn Beat, la recensione

L'idea giusta con la realizzazione meno adatta diventa un film che uccide tutti i propri stimoli fino ad una terza parte assurda

Critico e giornalista cinematografico


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La recensione di Autumn Beat, il film disponibile su Prime Video dal 10 Novembre

Questo non è esattamente il tipico film d’esordio. Non ne ha il budget (solitamente basso, qui invece buono), non ne ha l’urgenza, non ne ha lo stile radicale di chi deve dimostrare tutto, né quella forza un po’ grezza e brutale che scambia volentieri un po’ di maestria con un po’ di ardore. Autumn Beat è un primo film che sembra realizzato per somigliare ad un decimo film. Solo che non ha l’equilibrio, l’abilità o il mestiere di un decimo film. È l’esordio di Antonio Dikele Distefano, romanziere che come altri suoi colleghi è passato alla regia di una sua sceneggiatura scritta con Massimo Vavassori (già nel team di sceneggiatura della serie Zero e del prossimo 2016 - L’anno della trap), e come gli altri suoi colleghi si è scontrato con lo specifico filmico.

Autumn Beat racconta la storia giusta, nel posto giusto (Milano) con le intenzioni giuste. È esattamente quello che c’è da raccontare ora. I protagonisti sono tre amici, italiani di seconda generazione di inclinazioni e caratteri molto diversi. Li seguiamo da preadolescenti, quando esplode la passione per la musica, li seguiamo più grandi quando cercano di trasformare la passione in un lavoro con tutte le difficoltà del caso, le tensioni tra chi sta dietro e crea e chi sta davanti e ci mette la faccia (con di lato chi di fatto crea la musica) e poi tiriamo le fila di questo segmento generazionale in un presente che suona come un futuro.

Se la storia è quella giusta il problema è come è messa su schermo da una regia non sa gestire il ritmo. Non è solo questione di non annoiare e sapere correre bene, ma anche di dosare tempi e lunghezze in modo che il racconto sia piacevole, si dilati quando deve e contragga quando serve. Invece a partire da come sono recitati i dialoghi tutto sottrae interesse e drena stimoli. Non solo il cast è scelto con pochissimo riguardo per la capacità di recitare (a tutte le età i protagonisti sono pessimi e non possono nemmeno essere aiutati da una regia che li sappia dirigere) ma anche la concezione di tutti i personaggi inclusi i secondari non riesce mai a trovare quella credibilità che invece, è chiaro, dovrebbe proprio essere il punto di tutto! Autumn Beat è un film che ha un senso proprio perché viene dallo stesso ambiente che racconta, è impensabile che suoni così falso. Con i bambini che mettono tutti la mano a pistola verso il basso artificiosamente e con una produzione che tradisce una partenza non proprio dal basso.

Ad un certo punto però arriva la terza parte, saltiamo avanti nel tempo e siamo in un altro film. Anzi in un altro stato. Tecnicamente è sempre Italia ma l’impressione è che i protagonisti si siano trasferiti in America o che abbiano trasformato un pezzo di Italia in America. Usi, costumi e ambienti cambiano radicalmente, ma anche l’abbigliamento e la parlata sono diverse, calcate sugli stereotipi americani. Tuttavia l’idea che anima questa terza parte (americanizzazione a parte) è la migliore del film e se solo fosse meglio integrata o legata al resto del film avrebbe potuto se non altro segnare un buon finale, invece conferma quanto ad Autumn Beat manchi proprio la capacità di immaginare propriamente la sua storia.

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