Automata, la recensione

Tutto ambienti, volti, abiti e poco dialoghi Automata uccide le sue ottime idee con troppa filosofia e si risolleva con l'impatto visivo

Critico e giornalista cinematografico


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Il futuro dell'uomo è la macchina.
La fantascienza sta virando sempre di più verso questo principio e lo fa alla ricerca di un paradossale umanesimo. L'idea è che l'uomo non sia l'essere più adatto a preservare e portare avanti quel complesso di valori, sentimenti e debolezze che chiamiamo "umanità", quelli che una volta al cinema erano ciò che, in ultima analisi, segnava il confine invalicabile tra noi e le macchine, capaci di tutto, anche di imitarci, ma mai realmente umane. Ora invece le macchine sempre di più riescono ad essere "più umane degli umani", nuovi uomini. Sono diventate gli oppressi, la parte debole e le vittime delle storie in cui noi le opprimiamo non riconoscendo loro diritti e, per l'appunto, "umanità". Neil Blomkamp con District 9 ha avuto un'importanza centrale in questo movimento verso la marginalizzazione dell'uomo nella fantascienza a favore delle "minoranze", nonostante lì fossero gli alieni (non meraviglia che Humandroid, il suo prossimo film sarà sull'intelligenza artificiale).

Gabe Ibañez gira una storia contaminata di classico in cui un detective con impermeabile, alle dipendenze di una società d'assicurazioni, è sulle tracce di alcuni robot che stanno generando pensiero indipendente. Le regole asimoviane con le quali sono programmati gli impediscono di nuocere a forme di vita e di modificare se stessi. automata 1Invece si stanno modificando, qualcuno li sta modificando per scavalcare le direttive, qualcuno al di là di un deserto che piano piano sta mangiando il pianeta, vicino alle zone inabitabili dall'uomo per le troppe radiazioni.
Chi ci sia lì e quale sia il suo destino è il cuore pulsante di un film che purtroppo ci mette molto ad arrivare al dunque, facendo lentamente sfumare anche l'ottima ambientazione tra sole accecante e il senso che la vita sia sempre meno adatta agli uomini.

A furia di dialoghi filosofici, di spiegazioni e di domande pronunciate invece che suggerite Automata annacqua il molto di ottimo che crea, fermandosi quando rimane del "buono". I robot hanno sembianze poco antropomorfe, conservano una forte componente "disumana" e meccanica per creare lo straniamento e l'empatia migliori (le figure che ci somigliano troppo tendono ad essere mostruose, come uomini deformi), i loro volti umanizzati si staccano e rivelano ammassi di cavi e luci, un'identità più fiera. Già visivamente sono un popolo soggiogato che cerca indipendenza e autodeterminazione.
Oltre a questo gran parte di quel che di buono rimane è la faccia di Banderas: segnatissima, secca e asciutta come i deserti nei quali subisce il sole, piena di tagli come la sua vita e con un'espressione acuta e perplessa al tempo stesso di fronte alla lenta morte dell'umanità a favore di quello che la sostituirà ben presto. Più che il racconto, i dialoghi e l'azione sono gli ambienti di Automata, i suoi costumi e il trucco, tutte le componenti visive, ad aiutarlo ad arrivare alle sue mete più alte.

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